sabato 5 novembre 2016

La Stampa 5.11.16
Jostein Gaarder, l’autore di “Il mondo di Sofia”
“Siamo soli nonostante i social. L’unico conforto è ascoltare una bella storia
La youtuber-scrittrice incontra il suo “maestro”: a ruota libera su scrittura, web, e “Il mondo di Sofia”
intervista di Sofia Viscardi

Esistono scrittori con i quali si ha un legame particolare e io ho avuto l’opportunità di parlare con uno dei miei: Jostein Gaarder. E così, in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo,
Il consolatore, mi sono tolta qualche curiosità su uno dei miei libri preferiti da sempre, Il mondo di Sofia, che ha ispirato e continua a ispirare generazioni di teenager, me compresa. Letto al momento giusto è uno di quei libri capaci di allargare in modo repentino i tuoi orizzonti, una volta finito riesci ad avere uno sguardo nuovo e a pensare in modo diverso da come eri abituato.
Mister Gaarder, quando ha scritto il libro, aveva già in mente questa funzione quasi «didattica»? Si rivolgeva volontariamente ai ragazzi che si stanno formando?
«Quando mi mettevo davanti alla tastiera mi dicevo: “Scrivo per un pubblico doppio: per gli adulti e per i teenager”».
Il mondo di Sofia inizia con due domande rivolte alla protagonista: «Chi sei tu? Da dove viene il mondo?». Sono dilemmi universali che credo si pongano tutti gli esseri umani. Quanto sono cambiate le sue risposte a queste domande dal 1991, anno in cui è stato scritto il libro, ad oggi?
«Sicuramente oggi, a 64 anni, conosco me stesso più a fondo rispetto a 25 anni fa. Inoltre, ho lavorato a lungo per migliorare i miei strumenti di lettura dell’universo e del mondo in cui vivo grazie allo studio dell’astrofisica e dell’astronomia. Ho sviluppato una comprensione più profonda di ciò che mi circonda. Le domande rimangono le stesse, ma sono in grado di comprenderle meglio».
Secondo lei la filosofia ci può aiutare a trovare nuovi approcci? È possibile trasformare quelle domande in una maniera più «moderna»?
«“Chi siamo? Da dove viene il mondo? Esiste Dio” sono domande la cui importanza è rimasta immutata. Ma ciò non significa che la filosofia debba riflettere sempre e soltanto su queste questioni. Ci sono domande che alcuni filosofi contemporanei, e non solo loro, hanno cominciato a porsi e sono ugualmente importanti, ad esempio: “Come possiamo preservare la nostra vita sulla terra? Come possiamo salvare il nostro pianeta?”. Sono interrogativi rilevanti di cui stiamo acquistando una consapevolezza sempre più diffusa. Oserei dire che sono diventati prioritari per l’intera umanità».
Io ho scritto un romanzo, «Succede», una storia che parla della mia generazione. Per me è stata una sfida raccontare qualcosa in un modo diverso rispetto a quello, molto più familiare, del web. Ora, dato che ho ancora molto da imparare, avrei voglia di misurarmi con qualcosa di nuovo, studiare nuove tematiche. Lei ha scritto moltissimo dopo «Il mondo di Sofia»: in che modo l’enorme successo ha cambiato, se lo ha fatto, il suo approccio alla scrittura e quanto?
«Beh.. Quando ho scritto “Il mondo di Sofia” mi immaginavo un pubblico di lettori ristretto, non avrei mai pensato che potesse trasformarsi in un successo mondiale. Mentre altri miei libri che pensavo fossero più “facili” per il vasto pubblico, al contrario, non sono diventati bestseller. Questo significa non solo che è quasi impossibile prevedere l’accoglienza che le nostre parole riceveranno, ma anche che uno scrittore non deve pensare ad altro che a scrivere, seguire la sua ispirazione. Le storie mi nascono dentro, non faccio altro che ascoltarle e tradurle in scrittura».
C’è un argomento su cui vorrebbe continuare a scrivere perché lo sente ancora come non esplorato?
«Sì, e sono proprio gli argomenti di “ecologia planetaria” che le citavo prima. Salvare il mondo nel quale viviamo e che stiamo uccidendo con comportamenti scellerati è un obbligo civile, morale, e in fondo anche estetico. Sono temi che ho affrontato nel Mondo di Anna, altro libro conosciuto dal pubblico italiano. L’ho scritto ubbidendo a una specie di necessità, come Il mondo di Sofia, per una causa. Non mi era mai capitato, prima scrivevo romanzi solo per divertire il lettore e me stesso».
Nel mio romanzo una delle principali ispirazioni è stata la città in cui abito, Milano. Nel suo,Il consolatore, mi è sembrato di vivere un pezzo di Norvegia. Quanto sono stati determinanti nel mood della storia il suo Paese, i paesaggi e la gente norvegese?
«Penso che questo sia il libro più propriamente norvegese che abbia mai scritto. Sono stato molto ispirato dalla Norvegia, dai paesaggi ma soprattutto dalla lingua. Le confesso che quasi tutti i posti descritti esistono realmente nel mio paese, ai quali mi sento molto attaccato».
Una delle cose che mi ha affascinato di più di questo libro è ovviamente la figura del protagonista: non solo il fatto che si rechi ai funerali degli sconosciuti, che già di per se è davvero intrigante, ma anche che si intrattenga con gli altri partecipanti inventandosi finti ricordi con il defunto e nel frattempo ci sveli la sua passione per la linguistica. L’impressione è che in questo libro lei provi a restituire un enorme peso alle parole. Crede che anche nella società attuale questa considerazione possa essere apprezzata?
«Credo che dare peso e storia alle parole dimostri come le persone e le lingue siano tutte legate tra loro. Facciamo un piccolo esercizio: se prendiamo la parola italiana “giardino” è la stessa del mio cognome “gaarder”. Jakop, l’uomo di cui scrivo, è interessato alle diverse etimologie delle parole all’interno delle lingue indoeuropee. Le parole di voi italiani sono legate alle lingue germaniche, slave, indiane. Le lingue che parliamo ci ricordano che gli esseri umani sono imparentati in modo più profondo di quanto la politica, la storia, le guerre, ci vogliono far credere».
La storia di Jakop, il protagonista, è stata influenzata in qualche modo dalla sua vita?
«Io e Jakop abbiamo molte cose in comune. Prima di tutto ha la mia stessa età, dunque il suo rapporto con la società è uguale al mio. Inoltre proviene da una vallata norvegese nella quale c’è la nostra baita di famiglia, conosco alla perfezione quell’ambiente, quell’atmosfera, l’ho respirata da quando ero bambino. Jakop però è anche diverso da me: è una persona molto sola, mentre io non lo sono affatto, anche se sono capace di comprendere certi aspetti della solitudine che lui prova. Perchè tutti gli esseri umani in fin dei conti sono “soli”: nasciamo nudi e ce ne andiamo uno alla volta. C’è però una differenza sostanziale nell’essere soli e nel sentirsi soli. In inglese esistono due parole: “Solitude” e “Loneliness”, ed esprimono due sfumature diverse della solitudine, una come “scelta”, l’altra “come stato d’animo”. Jakop sceglie la “solitude”. Ma la “loneliness” è una condizione che tutti gli uomini, me compreso, affrontano».
Ho fatto un giro su internet e ho notato che non usa i social network: posso chiederle come mai?
«Oh, i social network! Sì, è vero. Assolutamente non uso Facebook, Instagram o cose del genere. Non ne sento il bisogno e penso che ci rubino troppa attenzione senza che ce ne accorgiamo. È come guardare la televisione: lì per lì può essere una bella esperienza, ma quando ti rendi conto della quantità di tempo che ti sottrae... rischiamo di diventare come un vecchio alcolista che diceva: “Un tempo bevevo dalla bottiglia ma ora è la bottiglia che beve da me”. E questo perché il vino è buono ma berne troppo ti toglie molto più di quanto non possa darti. Capita la metafora? Però uso moltissimo le mail».
Quindi è con le mail che si tiene in contatto con il pubblico?
«Esatto. Prima non avevo internet e ricevevo moltissime lettere. Ora sono “connesso”. E il dialogo passa attraverso le mail. Non c’è più il piacere di aprire la vecchia, amatissima, busta di carta e scoprirne il contenuto segreto. Ma dialogare con i lettori è piacevole. Vitale, direi, per non sprofondare nella “solitude”».