La Stampa 5.11.16
Marco Paolini
“La tragedia è parte della nostra identità ma la gente ormai vuole solo ridere”
L’autore portabandiera del teatro di denuncia: “Il mio modello? Paolo Poli, non Dario Fo”
intervista di Fulvia Caprara
Il
tono schivo da teatrante impervio, con l’espressione pensosa e le rughe
sulla fronte come solchi sulla corteccia di un albero, è mitigata da
continui colpi di tosse. L’influenza colpisce ancora, e perfino Marco
Paolini, autore, attore e regista nato a Belluno nel ’56, portabandiera
del teatro politico di strada e di denuncia, appare un po’ più fragile.
Impetuoso e ipnotico come sempre, ma con un sospetto di vulnerabilità
che ne accresce il carisma.
Questione di contrasti. Come quello
che salta agli occhi nella sua ultima prova cinematografica, il film
dell’esordiente Marco Segato La pelle dell’orso (tratto dal romanzo
omonimo di Matteo Righetto) in cui Paolini, di mestiere affabulatore,
interpreta Pietro, «uomo più di mani che di parole», consumato, nel
cuore delle Dolomiti Anni 50, dalla solitudine, dal vino e dalla caccia a
un orso feroce.
Il suo lavoro in palcoscenico si basa sull’uso
delle parole. Come è riuscito a calarsi nei panni di un personaggio che
ne farebbe quasi a meno?
«Si fa si fa... In questo caso tutta la
mia esperienza teatrale non mi è servita a niente. Mi sono ispirato
all’orso, d’altra parte sono il primo della mia famiglia a non fare un
mestiere che richieda l’uso delle mani. Tutti i miei antenati erano
dediti al lavoro manuale: mio padre ferroviere, altri parenti
commercianti di legname, anch’io, in fondo, sono un manovale dell’era
digitale, il mio approccio alle cose è sempre materico».
Nella
storia Pietro è un genitore perduto e ritrovato. Le è capitato,
interpretandolo, di ripensare a suo padre, al vostro legame?
«Mio
padre, che persona straordinaria. Quando, al quarto anno di università,
gli ho detto che volevo fare teatro non ha battuto ciglio, mi ha
risposto “se questa è la tua strada, seguila”. Nel suo ambiente era
importante dire che suo figlio frequentava l’università, risultava più
difficile spiegare che, a un certo punto, aveva deciso di fare
l’attore».
E poi come è andata?
«L’occasione vera di
riscatto è arrivata quando è stato trasmesso in tv lo spettacolo sul
Vajont. Allora, finalmente, tutti hanno capito che lavoro si era messo a
fare il figlio del ferroviere».
Della sua biografia artistica fa parte Dario Fo. È stato un suo modello?
«Rifarsi
a lui sarebbe stato come compiere una sorta di plagio. Ogni spettatore
ha un debito nei suoi confronti, tra Fo e il suo pubblico c’era una
sintonia poetica. Ma come attore io non mi sento in debito. Anzi. Guai a
partire da lì, come voler fare il cantante partendo da Bruce
Springsteen. Se devo partire da qualcuno, dico Paolo Poli».
Molti
dei suoi spettacoli, e ora anche il film di Segato, hanno la natura come
personaggio principale. Lei che rapporto ha con questo co-protagonista?
«Non
vesto “outdoor” e non sono l’uomo dei boschi, però vado in montagna, mi
arrampico, faccio le ferrate. La mia relazione con la natura non si può
vendere, è una cosa che tengo per me. Ogni volta che mi ritrovo in
certi luoghi mi lascio guidare e l’insieme dei sentimenti che sento
affiorare è enorme».
La natura può incutere anche tanta paura. Le è capitato di sentirsi sovrastato, intimorito?
«La
paura, quando arriva, deve trasformarsi in senso di responsabilità e
autocontrollo, bisogna conoscere i propri limiti, non farsi prendere
dalla vertigine. So che certe volte, in montagna, bisogna tornare
indietro. Quelli che muoiono sulle vette sono quasi sempre quelli che
sanno bene cosa fare, poi però c’è l’imponderabile, e allora non si può
nulla. Un adulto certe cose deve saperle, sui monti, ma anche altrove».
Detto da lei, che è uomo di sfide per antonomasia...
«Le
sfide si possono affrontare, ma sapendo bene dove mettersi. L’età
anagrafica, per esempio, ti impone dei limiti. L’Amleto a Gerusalemme
fatto con Vacis, ecco, quella è una sfida importante».
Ha ancora senso, nell’Italia di oggi, il suo teatro di denuncia?
«Il
problema è che in Italia le autocensure sono più potenti delle censure
vere e proprie. Il rischio maggiore di quel tipo di teatro non sta nelle
querele, ma nel fatto che, se continui a praticarlo, puoi morire di
fame. Il punto non sta nella mazzata del potere che ti mette in
prigione, ma nella domanda di fondo: “Quanto gliene frega alla gente di
quello che fai?”, “Quanti sono disposti a pagare per piangere invece di
ridere?”. Comunque non mi sento solo, anzi, da noi il teatro di memoria è
più presente che in altre comunità europee».
Lo spettacolo sul Vajont è stato un enorme successo.
«Eppure
il nostro resta un Paese che si identifica con la commedia
all’italiana. Io stesso sono un ammiratore di Crozza, però non sono
d’accordo con chi pensa che il genere comico svolga una funzione molto
più importante di quello drammatico. Con il Vajont ho capito che la
tragedia fa parte della nostra identità. E poi basta pensare alla
Traviata, a Rigoletto, alla Forza del destino, opere che hanno fatto
l’unità d’Italia. Vedendole si piangeva, e si usciva dal teatro con la
voglia di vivere meglio la propria vita. Mi torna in mente anche La
grande guerra, un film pazzesco, ti diverti per tutto il tempo e alla
fine capisci di aver visto un dramma».
NellaPelle dell’orsoc’è una
donna, Sara (Lucia Mascino), che se ne va da sola in giro per i monti.
Negli Anni 50. La forza femminile non è mai stata abbastanza raccontata,
ma esisteva, anche allora.
«Di donne forti ce sono state un
sacco, da Tina Merlin, la giornalista che raccontò il Vajont, a Tina
Anselmi, che ho conosciuto, e che considero una figura eccezionale del
Novecento italiano. Ma ce ne sono tante altre, nel campo della ricerca e
anche del cinema».
Non ha mai desiderato di passare dietro la macchina da presa?
«No,
non ho attitudine al comando, e non avverto il fascino dell’opera
filmica dal punto di vista della tecnica, che ne è un aspetto
importante. Preferisco lavorare con un’altra materia. Quella dei corpi, e
delle parole».