Corriere 5.11.16
Il dilemma sunnita e le incognite del «dopo»
di Lorenzo Cremonesi
La
battaglia per Mosul e la sconfitta dell’Isis potrebbero diventare la
base di lancio per la ricostruzione di un Iraq pacificato, sovrano e
unito; oppure rivelarsi un fallimento con il trionfo del settarismo. Il
dilemma è aperto: riuscirà il premier sciita Haider al Ebadi a
reintegrare la minoranza sunnita nella gestione dello Stato e nella
società civile?
Il pessimismo è giustificato. Troppi gli interessi
in campo e le forze straniere coinvolte. Tanto dipende dalla buona
sorte, ma soprattutto dalla volontà del governo centrale di superare una
volta per tutte lo scoglio della marginalizzazione dei sunniti. Un
problema esploso dopo l’invasione americana del 2003, seguita dalla
defenestrazione della dittatura baathista del sunnita Saddam Hussein e
quindi accresciuto dalla politica antisunnita imposta dall’ex premier al
Maliki sino al 2014. Una politica suicida, che ha facilitato il
radicamento di Al Qaeda, fomentato la guerra civile, il terrorismo e
l’adesione di larga parte delle masse sunnite all’Isis. Al Ebadi sembra
aver imparato la lezione. Anche grazie alle pressioni Usa, le unità
migliori che attaccano Mosul si presentano come «non settarie».
Promettono che impediranno a ogni costo le angherie ai danni dei sunniti
che hanno caratterizzato le battaglie di Tikrit, Ramadi e Falluja.
Eppure, le tradizionali milizie sciite restano sul campo. Seguendo la
Nona divisione blindata presso Qaraqosh, che si presenta come super
partes, abbiamo verificato che la stragrande maggioranza dei suoi
soldati sono sciiti, tanti originari di Bassora, Karbala e Najaf. Su
gipponi e tank hanno le bandiere con le immagini di Hussein e Alì, gli
imam venerati degli sciiti. Più le sventoleranno, più la popolazione di
Mosul, pure esasperata dal fanatismo Isis, li vedrà come invasori.