La Stampa Tuttolibri 12.11.16
Il falò delle vanità brucia anche Darwin e Chomsky
Il
padre del New Journalism americano stronca i due miti
dell’evoluzionismo e della linguistica: provocazione elegante, ma zeppa
di strafalcioni
di Gianni Riotta
Tom Wolfe, 85
anni, americano, è uno dei padri dell’irriverente New Journalism, che
allo stile inamidato del New York Times preferiva una prosa personale,
in diretta, senza misure. Wolfe, celebre per gli atteggiamenti da dandy e
il perenne abito bianco, ha via via demolito con talento, in saggi e
romanzi, il mito dello spazio, l’arte e l’architettura moderna, la
sinistra chic, l’illusione newyorchese della coesistenza fra razze.
Nell’ultimo
libro, Il regno della parola, tradotto con tempestività da Giunti, la
verve di Wolfe affronta un soggetto su cui gli studiosi si affaticano da
secoli, l’origine del linguaggio. Non aspettatevi note a piè di pagina
su De Saussure «langue» e «parole» o il «secondo Wittgenstein», Wolfe
sceglie il pamphlet, succinto excursus sul tema e poi la polemica prende
il sopravvento. Bersagli, stavolta, Charles Darwin e la teoria
dell’evoluzione e il formidabile linguista Noam Chomsky, persuaso che il
dono del parlare sia innato in noi, grazie a una «grammatica
universale».
A Darwin, Wolfe oppone Alfred Russel Wallace, un
naturalista contemporaneo che anticipò i temi dell’evoluzionismo,
finendo però per credere ai fantasmi e a dialogare con i morti. A
Chomsky, invece, contrasta il missionario diventato antropologo Daniel
Everett che, studiando i Piranha, remota tribù di indigeni
dell’Amazzonia, notò come alla loro lingua mancasse la «ricorsività»
tipica dell’«innatismo» di Chomsky, per cui montiamo frasi come
matrioske: «Ho visto Piero al bar mi ha detto di aver perduto la valigia
che io gli avevo regalato…». Per vari studiosi, e per Wolfe, questo
basta ad azzerare le teorie del padre della «grammatica generativa», per
altri Everett è smentito da ulteriori ricerche.
Tom Wolfe non ha
tempo per le filologie, ce l’ha con Darwin, aristocratico, uomo da club,
mentre il povero Wallace tirava a campare e detesta Chomsky per la
lunga attività di militante politico, e fosco complottista, contro i
mali del capitalismo occidentale e Israele. Qui il lettore de Il regno
della parola arriva a un bivio, senza ritorno. Se accetta che il libro
sia solo brillante polemica, allora lo godrà fino all’ultima riga. Se
invece crede si tratti di un serio trattato su natura, cultura e storia
del linguaggio, si prepari a brutte sorprese e, soprattutto, non lo dia
ai figli come fonte per ricerche a scuola, finirebbero bocciati senza
appello.
È vero che c’era in Darwin ogni tic del gentleman
vittoriano ed è altrettanto vero che l’ossessiva propaganda di Chomsky
è, da decenni, stucchevole. Ma irridere il lavoro scientifico dei due è
altra cosa: entrambi, nei loro campi, hanno guidato rivoluzioni e mutato
la cultura contemporanea. Finché è sorretto dalla scrittura Wolfe
diverte, quando prende di petto la scienza scade. Dire che non ci sono
«prove scientifiche» dell’evoluzione - dopo riletture come quella di
Stephen Jay Gould - è falso, i fossili datati confermano Darwin, non
trovate lo scheletro di un Homo Sapiens divorato da un Tirannosauro Rex,
né un cane lupo di razza odierna a spasso con i Neandertal, per non
citare le odierne scoperte della biologia molecolare. Wolfe, come capita
ai corsivisti innamorati della propria scrittura, non ha tempo per
studiare i fatti. Einstein non ha scoperto la velocità della luce,
Galileo ci provò e l’astronomo danese Ole Roemer già nel 1676 fece
calcoli assai precisi. E non è vero che Darwin non azzardò mai
previsioni, per esempio sull’evoluzione dell’uomo dall’Africa ebbe
intuito felice.
Dopo avere fatto a pezzi Darwin e «Noam Carisma»,
come soprannomina Chomsky, Wolfe espone la «sua» teoria del linguaggio,
ridotto a gioco mnemonico per semplificare la vita dei nostri antenati.
Anziché vedersi sfuggire una lepre al giorno per non saper mai dire
«Zitto!» al rumoroso compagno di caccia, ecco inventato il linguaggio.
Il nostro poderoso cervello non verrebbe dunque dall’evoluzione, perché,
secondo Wolfe, gli uomini delle caverne non giocavano a scacchi,
studiavano l’algebra di Boole o le teorie balistiche di Kolmogorov. Ma
non è così. Non solo gli «uomini primitivi» erano medici, artisti,
cuochi, cacciatori, artigiani, farmacisti, politici e teologi
sofisticati, ma la nostra cultura, umanistica o scientifica, procede per
accrescimento progressivo. Non siamo più «intelligenti» di Aristotele,
Spinoza e Bayes, siamo più dotati di informazioni, e strumenti, di loro.
È
bello che Wolfe resti così creativo e arrabbiato, ma speriamo che nel
prossimo lavoro punti a temi alla sua portata, senza scarabocchiare sui
monumenti, come uno scolaro dispettoso in gita.