La Stampa 8.11.16
Il femminismo in un hashtag
di Ester Armanino
«Essere
una donna è ancora un mestiere complicato»: così si chiudeva il secondo
spot realizzato per il progetto di comunicazione integrata «Punto su di
te» di Pubblicità Progresso, circa un anno fa. Girato durante dei veri
colloqui di lavoro attraverso le telecamere nascoste tipiche di alcune
inchieste televisive, mostrava un’attrice che si presentava ai colloqui
interpretando il ruolo di una donna e poi, accuratamente truccata,
quello di un uomo. «Donna» e «uomo» erano entrambi interessati alla
posizione offerta, con lo stesso background di studi e di esperienze
lavorative pregresse ma, al momento di chiarire le aspettative
economiche, il selezionatore si dichiarava disponibile ad accettare la
richiesta di retribuzione del candidato uomo, trovando invece eccessiva
l’identica richiesta fatta dalla donna. Nella campagna stampa
dell’iniziativa si vedeva anche una donna mostrarci una banconota da 10
euro che riportava però la cifra 7: svalutazione tristemente statistica
basata sugli studi da cui, come ormai si sa, è emerso che la disparità
di retribuzione tra uomo e donna in Italia è in media del 7,2% con punte
del 30% fra le persone laureate.
Questa campagna mi aveva molto
colpito nel suo essere chiara e semplice e di tutti, come dovrebbero
essere le questioni e le parole che sono di tutti: donna, uomo, pane,
casa, scuola. Queste e altre campagne di comunicazione - guardate lo
spot divulgato dalla Commissione Europea lo scorso 3 novembre in
occasione dell’European Equal Pay Day e girato alle casse di un
supermercato - hanno una grande efficacia proprio perché arrivano a
tutti e se c’è un target, questo è abbastanza universale. La protesta
lanciata ieri in Francia dal collettivo femminista «Les Glorieuses»
delle 16,34 mi è invece sembrata banalmente mediatica. Chi sono Les
Glorieuses? Sono un gruppo di recente formazione fondato da donne
esperte di web-communication, nato come newsletter e molto attivo su
Facebook. Non hanno contatti con realtà territoriali e sindacali, non
sono un’associazione e non fanno riferimento a nessuna personalità di
cultura femminista che ci metta la faccia. L’invito a scioperare dalle
«16,34», solidale con quello delle donne islandesi a ottobre, è stato
lanciato come si lanciano gli hashtag del giorno o quelle proposte di
indossare indumenti di un colore specifico per mostrarsi sensibili a una
qualche causa. Il web pare essere il loro (unico) orizzonte e da lì
propongono e alimentano quel femminismo di superficie volto a combattere
i diktat dei media con tutto un armamentario di immagini e discorsi che
alla fine si ripetono in cliché privi di incisività e universalità.
Con
Les Glorieuses la questione dei diritti lavorativi delle donne,
affrontata efficacemente dalle campagne di cui sopra, finisce per essere
la provocazione del giorno. Quale donna potrebbe seriamente aderire a
un’astensione dal lavoro lanciata da un hashtag? Il femminismo, che
conta decenni di lotte per i diritti umani universali e che è l’operato
di tante associazioni e presidi territoriali radicati nella vita
quotidiana delle donne, non rischia di diventare qualcosa di molto
vicino al «feminine washing» (espressione coniata dalla professoressa
Marie Anne Paveau dell’Università di Parigi 13 e ispirata al neologismo
«green washing», ovvero tutte quelle strategie di comunicazione
finalizzate a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto
il profilo dell’impatto ambientale)? Non per sminuire le buone
intenzioni di chi si propone di divulgare - a modo suo - le questioni di
disparità di genere, tantomeno per giudicare chi condivide
#7novembre16h34 sul suo profilo twitter, ma a che serve la provocazione
fine a se stessa? Da quanti al giorno d’oggi è recepita?
Numeri
alla mano, vedremo quante donne hanno realmente aderito allo «sciopero»,
se con licenza poetica (o superficialità mediatica) decidiamo di
utilizzare questa importante parola.