La Stampa 8.11.16
“Non se ne andranno. Solo D’Alema rischia se a vincere sarà il Sì”
L’ex capo della Cgil: hanno sempre condiviso tutto
di Federico Geremicca
«Non
 succederà nulla. Bersani continuerà a dire che non va via nemmeno con 
l’esercito, e gli altri faranno lo stesso: vivranno da separati in casa.
 Del resto, parliamo di dirigenti che hanno condiviso linea e scelte che
 hanno cambiato il brand della ditta e la sua missione». Sergio 
Cofferati, storico leader Cgil ed ex sindaco di Bologna, è fuori dal Pd 
(del quale fu co-fondatore) dal gennaio 2015, dopo aver perso le 
primarie in Liguria, e dice di non prendere sul serio il film oggi in 
programmazione: “Democratici sull’orlo della scissione”.
Perché?
«Perché
 Bersani ha della cosiddetta ditta l’idea nota: non ha né voglia né 
interesse a rompere, e questo - per altro - corrisponde al suo modo di 
intendere la politica».
E i più giovani, intendo da Roberto Speranza in giù?
«Quando
 dico Bersani mi riferisco a un’area. Hanno condiviso scelte che ora 
renderebbero incomprensibile una scissione. Ci sono alcune soglie che in
 politica è rischioso superare: prima di tutto quella della 
credibilità...».
Stesso discorso per D’Alema?
«Per D’Alema è
 diverso: è in una posizione oggettivamente più esposta. A differenza di
 altri, ha fatto una scelta molto netta, mettendo addirittura in piedi 
comitati per il No. In caso di vittoria del Sì, si troverebbe in una 
situazione più delicata».
Renzi si muoverà, secondo lei, per soddisfare i cori “fuori-fuori”?
«Non
 credo proprio. Non ha alcun interesse a farlo. Tenterà ancora di tenere
 tutto assieme. Penso che, qualunque sia l’esito del referendum, non 
accadrà nulla fino al prossimo Congresso».
E al Congresso?
«Tenteranno
 di battere Renzi, che però è solo uno dei problemi che oggi ha il Pd. 
Gli altri riguardano la linea e il senso della missione: e - soprattutto
 - regole di civile convivenza all’interno del partito».
Pensa che la minoranza possa davvero vincere il Congresso?
«Credo
 dipenda da molte cose: in testa a tutte, ovviamente, dal risultato 
referendario. In ogni caso, un obiettivo almeno dovrebbero porselo e 
centrarlo: separare la guida del partito da quella del governo. Quanti 
danni stia producendo il doppio incarico, oggi è davvero sotto gli occhi
 di tutti».
Lei, Civati, D’Attorre... I democratici non hanno 
subito scissioni dall’avvento di Renzi, ma addii eccellenti sì. Come si 
sta fuori dal Pd?
«Non posso rispondere per gli altri: non tutti 
hanno lasciato il partito per le stesse ragioni. Resta il fatto che non 
credo possibile restare in un collettivo politico se non se ne 
condividono più contenuti e comportamenti, perfino etici».
Intendevo dire come si sta politicamente, visto che fatica a nascere un nuovo soggetto politico unitario a sinistra...
«È
 vero, ma si guardi a quel che accade in Europa. La crisi dei socialisti
 francesi è drammatica, quella degli spagnoli è esplosa con la nascita 
del governo Rajoy, e in Grecia, non esistono più».
Dunque ha ragione Renzi a voler cambiare rotta al Pd?
«Affatto.
 Lo spazio politico esiste: ma vanno reincarnati i valori storici, con 
forme e modi che certo possono essere diversi dal passato. Non è stato 
fatto e gli effetti si vedono: Syriza e Podemos, per dire, sono altra 
cosa rispetto a quel che si pensava. Ma in Italia restare nella 
tradizione, innovandola, è possibile: e non è troppo tardi».
 
