martedì 8 novembre 2016

La Stampa 8.11.16
Un duello che arriva da lontano
di Marco Zatterin

Lo sfogo di Juncker dà voce a pensieri amari sull’Italia molto diffusi a Bruxelles, giudizi che si sarebbe preferito relegare a conversazioni private e invece no. Il lussemburghese sfida un Renzi che gli pare irriconoscente, avido nel chiedere e poco consapevole delle regole comuni.
Avrebbe fatto meglio a tacere, coi tempi che corrono. Eppure non sorprende il comportamento del presidente della Commissione, fumino e imprevedibile, oratore appassionato e spesso renitente alla diplomazia che l’Europa, terra di compromessi per eccellenza, richiede a ogni suo protagonista. Nel premier fiorentino, Juncker osserva un altro se stesso, figlio d’un epoca e di un mondo diversi, eppure altrettanto combattivo e all’occorrenza impertinente. L’incontro col suo quasi doppio è una naturale fucina di scintille, sono forze simili e contrarie. Così la disfida di ieri, col suo batti e ribatti corale, è parsa inevitabile e in parte scontata.
La frenesia con cui i portavoce dell’esecutivo comunitario si sono precipitati a parlare di «tempesta in un bicchier d’acqua» segnala che la crisi fra Bruxelles e Roma ha imboccato un solco insidioso. Hanno cercato di minimizzare le parole e i numeri di Juncker come se nulla fosse accaduto. La testa della Commissione, alla stregua di buona parte dei partner di casa Ue, è persuasa che il governo Renzi sia la soluzione migliore, o il male minore, per il futuro immediato di un’Italia che si desidera il più stabile possibile. Vorrebbero andare incontro all’«amico Matteo» - anche alla luce del dramma dei migranti e degli effetti disastrosi dei terremoti -, ma auspicherebbe un lavoro negoziale più raffinato e un dialogo meno ammiccante ai populismi.
La realtà è che ad applicare le regole così come sono, la legge di bilancio non la farebbe franca. Le spese per i cataclismi possono essere scontate dal deficit solo per la parte legata all’emergenza e non alla ricostruzione. Quelle per i migranti potenzialmente oggetto di bonus riguardano le uscite eccezionali, dunque i maggiori esborsi rispetto all’esercizio precedente. Giusti o sbagliati, i Trattati tagliano formalmente Roma fuori dalla possibilità di essere aiutata quanto domanda, anche se questo non impedisce a molte fonti bruxellesi di ribadire che si cerca una soluzione: «Sappiamo dove vogliamo arrivare: dobbiamo solo capire come farlo».
Per questo piaceva il passo felpato con cui il team di Padoan stava architettando l’armistizio contabile. Quando i toni del premier, e non solo, si sono riscaldati, sono riemersi i cattivi spiriti. «Ma come? - si è chiesto Juncker - L’Italia ha ottenuto 19 miliardi di maggiori margini di spesa e continua a contestare la flessibilità presunta-mancata della Commissione?»
La convinzione dei tecnici di Bruxelles è che il bilancio 2017 non sia abbastanza solido dal punto di vista strutturale. Non tornano i numeri di deficit e debito, le coperture non convincono. Roma andrebbe stangata e questo esporrebbe il governo a una tempesta politica ancora più forte di quella già possibile col referendum di dicembre. Juncker lo vuole evitare, ha dato mandato di trovare una mediazione. Ritiene conveniente difendere Renzi ma deve pensare anche a se stesso.
Così l’attacco al premier - la «tempesta nel bicchiere d’acqua» che tale non è - diventa per il lussemburghese la summa degli animi irritati dei suoi collaboratori e anche una difesa di sé stesso da chi, come tedeschi e olandesi, deve andare al voto nel 2017 e rischia grosso a dimostrarsi lassista con gli «italiani spendaccioni». Ce ne sarebbe già abbastanza, se il presidente della Commissione non sentisse la strategia di Palazzo Chigi come un’offesa privata. Non sopporta che la sua flessibilità sia chiamata austerity.
La ragione personale ha trionfato sulla ragione istituzionale e Juncker non ci ha visto più. Non è forte neanche lui, non poteva abbozzare a lungo. Basta critiche che non portano da nessuna parte, ha detto lui che, delle critiche, giura di infischiarsene. Doveva vincolarsi al silenzio, ha aggiunto rumore al rumore. Col risultato di allungare la partitura di un concerto cacofonico che fa il gioco di chi vuole male all’integrazione europea, danneggia la credibilità delle istituzioni e crea nemici per un Renzi che, di oppositori, ne ha già più che abbastanza. E rendere la ricucitura necessaria quanto difficile.