lunedì 7 novembre 2016

La Stampa 7.11.16
Frontiere blindate e aiuti all’industria
Il repubblicano vuole anche rivoluzionare gli equilibri all’estero strizzando l’occhio a Putin e all’Iran
di Francesco Semprini

Se farà l’America grande di nuovo per ora non è dato saperlo, ma senza dubbio Donald Trump l’America la farebbe diversa. Diversa non solo dalla rivale nella corsa alla Casa Bianca Hillary Clinton, o dall’attuale presidente Barack Obama, ma da chiunque altro abbia guidato gli Stati Uniti.
Questo non solo perché il tycoon non è un politico di professione, non trova una collocazione nelle tradizionali architetture partitiche di Washington, e fa saltare tutti gli schemi del bon-ton politichese. Ma soprattutto perché, ed è questo probabilmente il segreto del suo successo, con lui l’America sarebbe come non è mai stata prima. A partire dalla Casa Bianca, dove il tycoon porterebbe con se una First Lady atipica, non americana di nascita, ex modella, con il debole per i ritocchi e con un carisma tutto da provare. Questo significa che al di là di un campo da minigolf al posto dell’orto, la vera First Lady potrebbe essere Ivanka, a cui The Donald ritaglierebbe un ruolo di primo piano nel suo staff. Il principio è lo stesso di quello seguito nei suoi business, «family first», perché la fedeltà è merce rara per il miliardario.
Ne consegue un accentramento della Casa Bianca nelle mani del clan Trump, Don Jr, Eric e il genero Jared Kushner. Accanto a loro troverebbe posto Rudy Giuliani, anche lui newyorkese doc e fedelissimo della prima ora, intorno al quale il «45esimo Presidente» modulerebbe il capitolo «law & order» della sua dottrina. Tolleranza zero e «stop and frisk» (perquisizioni a chiunque venga fermato per un semplice sospetto). Ma anche deleghe pressoché illimitate alla polizia e vendita di armi da fuoco agevolata in base al diritto inalienabile all’autodifesa, previsto dal Secondo emendamento. La legalità passa per la lotta all’immigrazione clandestina, ovvero il muro col Messico: «Più ci dicono di non farlo e più alto lo costruiremo» e a pagarlo sarà il Messico, magari coi soldi di Carlos Slim, il signor New York Times. E a sorvegliarlo ci saranno tanti sceriffi Joe Arpaio, che sebbene non sia di New York, per quel lavoro va bene lo stesso.
Per i rifugiati invece è prevista una severissima selezione ancor prima dell’ingresso. L’interfaccia tra Trump e i cittadini sarebbe senza dubbio Daniel Scavino, un altro newyorchese, mentre Kellyanne Conway, che è invece del vicinissimo New Jersey, sarebbe il deus ex machina dell’agenda strategica del tycoon. È lei che ha messo a punto la strategia di «guerrilla marketing» che nella giornata di ieri ha portato Trump, dopo il tour de force di ieri culminato con al tentata aggressione a Reno in Nevada, in altri cinque Stati. Dall’Iowa per rinsaldare il legame con le campagne del granaio d’America dopo lo sgambetto delle primarie, al Minnesota, dal Michigan delle «Motor City» alla Pennsylvania, il campo di contesa più feroce, per concludere in Virginia, lo Stato blu che è un po’ il sogno proibito del magnate.
I leitmotiv sono ripetuti come mantra. Si torna a far grande l’America levando i fondi destinati alle Nazioni Unite per la lotta contro l’effetto serra e si impiegano per riaprire le miniere di carbone. L’indipendenza energetica e lo scioglimento di ogni vincolo sulle emissioni è centrale per rilanciare il manifatturiero pesante, le acciaierie e l’edilizia. Una strategia trasversale con cui Trump vuole restituire lavoro alle tute blu colpite dalla delocalizzazioni. Ma anche alla classe media piegata dalla crisi «causata dalle banche e da quei manigoldi che a Washington hanno assecondato i falchi di Wall Street». Ed infine gli imprenditori, quelli piccoli messi fuori gioco «dall’interesse delle multinazionali e delle lobby democratiche».
Per realizzare il suo progetto di un’America diversa Trump è determinato a cestinare i trattati di libero scambio, dal Nafta con Messico e Canada, al Tpp con i partner dell’Asia-Pacifico. E rinegoziare gli accordi su base bilaterale, andando a stravolgere gli equilibri commerciali in atto. Con conseguenti ripercussione sulle bilance commerciali e delle partite correnti. Necessità a cui internamente Trump farebbe fronte con una politica fiscale avanguardista: stracciare l’attuale regime tributario e introdurre un’unica flat tax uguale per tutti. Col rischio però che, se l’economia non galoppa a ritmo debito, si avrebbe un aggravio del debito pubblico già non indifferente. E con l’aggravante che quest’ultimo è per buona parte in mano alla Cina con cui Trump non è intenzionato ad essere cordiale. Un altro creditore di rilievo è l’Arabia Saudita, e anche qui il tycoon sembra voler usare la linea dura come merita «chi ha creato e mantenuto l’Isis». Per il tycoon si risolve tutto nella formula dell’indipendenza finanziaria degli Usa, svincolare da patti restrittivi, imporre al Fondo monetario una linea dura, e infine rovesciare la Federal Reserve: fuori Janet Yellen e dentro Peter Morici, economista anticonformista e, non a caso, newyorkese doc.
C’è poi la politica estera fatta di una nuova era di relazioni brillanti con la Russia di Vladimir Putin, posto che quest’ultimo ne abbia voglia. Ridiscussione delle alleanze tradizionali: «nella Nato tutti devono contribuire in maniera adeguata». Poi ci sono le convergenze parallele con chiunque faccia la guerra al terrorismo: con l’Iran, ad esempio, si può dialogare, anche se quell’accordo sul nucleare all’amico Giuliani proprio non va giù.