lunedì 7 novembre 2016

La Stampa 7.11.16
Ma Trump non sarà l’Apocalisse
di Giampiero Massolo

Ma davvero Donald Trump può diventare il prossimo Presidente degli Usa? Magari è possibile, alla luce della rimonta nei sondaggi, forse non è probabile. Vedremo presto. Ad attirare l’attenzione dovrebbe essere intanto lo spazio di consenso che è riuscito a costruirsi nell’elettorato.
Ha incarnato una dialettica praticamente insanabile tra la complessità dei problemi in carico ai governi e il fascino di chi propone soluzioni facili, spesso impraticabili, ma seducenti nella loro formulazione. C’è di che riflettere, non solo in America. Che vinca o perda, sotto questo profilo lascerà il segno.
Ma una sua Presidenza sarebbe davvero destabilizzante come in molti temiamo? La personalità del Presidente degli Stati Uniti e la congerie di interessi che esprime impattano inevitabilmente sulle politiche e sulla gestione delle crisi, con conseguenze rilevanti per il resto del mondo. Va fatta tuttavia un po’ di tara.
La forza delle regole della democrazia americana, la problematicità delle maggiori crisi internazionali, la difficile reversibilità volente o nolente delle conseguenze della globalizzazione, l’obiettivo di perseguire lo sviluppo e ammodernamento dell’economia sono fattori destinati a condizionare pesantemente chiunque venga eletto, al di là dei velleitarismi e accenti individuali.
Anzitutto, pur «comandante in capo», il Presidente non è un uomo solo: il sistema di pesi e contrappesi fissato dalla Costituzione ne delimita l’azione; strutture di governo e amministrative consolidate, per ruolo e per qualità, forniscono le opzioni tra le quali scegliere, lasciando poco spazio all’improvvisazione; gli equilibri nel Congresso lo costringono ad un costante negoziato (e non è detto che Trump potrebbe contare su di una confortevole maggioranza); il suo stesso partito, repubblicano o democratico che sia, tende quasi a circondarlo ove ne percepisca una debolezza, preoccupato delle elezioni future.
Sul piano internazionale, le crisi in atto distolgono dalle pulsioni isolazioniste e non consentono condotte granché alternative: la perdurante centralità ai fini della sicurezza dell’area mediterraneo-mediorientale e la sfida del terrorismo jihadista obbligano a sporcarsi le mani; la tentazione di risolverle con politiche più interventiste e magari soldati sul terreno presenta costi politici difficilmente tollerabili; la Russia, d’altra parte, contro la quale neppure Obama ha in ultima analisi infierito, continua ad essere parte di ogni possibile soluzione, non al prezzo tuttavia di rendere più vulnerabile la comunità euro-atlantica; l’Europa resta un’interlocutore indispensabile per la solidarietà occidentale, ma va esortata ad evolvere sul piano economico e a coinvolgersi con maggiori responsabilità (e chissà che un Presidente americano meno ortodosso nel linguaggio e nei metodi non possa dare un’utile scossa); la Cina consapevole e assertiva, è problematica da contenere con misure commerciali e crea allarme tra alleati strategici degli Stati Uniti, impossibili da disattendere pena l’instabilità del quadrante del Pacifico fino a lambire le coste americane.
L’economia e la globalizzazione, infine. Nei suoi aspetti positivi e negativi, a cominciare dall’immigrazione e dai flussi di merci, sfugge ai controlli. I protezionismi, come ogni muro (quello con il Messico, a spezzoni peraltro già esiste e serve manodopera per sostenere il Pil), possono mitigare, ma sono aggirabili e non funzionano a lungo perché frenano lo sviluppo. Quando l’imperativo, anche sul piano del consenso, è quello del rilancio della crescita inclusiva e della tenuta complessiva della società, non ci sono molte opzioni rispetto alla gestione realistica e accorta di problemi di fatto privi di soluzioni univoche e definitive. Così come sarà difficile esimersi, al di là delle singole ricette, da un ambizioso piano di ammodernamento delle infrastrutture americane da tempo atteso.
In sostanza, saranno agenda, circostanze e interessi più del temperamento a definire e contenere il prossimo Presidente americano. Resta il fatto che Hillary Clinton ne è senz’altro fin d’ora più consapevole di Donald Trump. Mentre il mondo non può permettersi troppi indugi nella curva di apprendimento del nuovo inquilino della Casa Bianca.