La Stampa 6.11.16
Braccio di ferro sui fucili semiautomatici
Dal Bataclan l’Ue discute se eliminarli dall’elenco delle dotazioni per la caccia
di Carola Frediani
Per
capire il mercato delle armi da fuoco - e la sua regolamentazione -
bisogna adottare un punto di vista internazionale. Perché è qui che si
gioca la partita. In Europa, all’indomani degli attentati terroristici
di Parigi, nel novembre 2015, la Commissione ha presentato una proposta
di modifica della Direttiva 91/477/Cee sul controllo, l’acquisizione e
la detenzione di armi civili. L’intento era di evitare la discontinuità
nelle legislazioni statali e dare un giro di vite su alcune categorie di
armi, in particolare su quelle semiautomatiche. «Il nodo erano i fucili
semiautomatici», commenta Giorgio Beretta, analista di varie
associazioni che monitorano il commercio di armamenti. «La precedente
direttiva aveva permesso l’uso di questi fucili anche per la caccia».
Mentre la proposta attuale di modifica, in una prima versione, voleva
riclassificare la categoria delle armi semiautomatiche e di fatto
escluderle dalla vendita pubblica. Una restrizione su cui però
Parlamento e Consiglio Ue, anche per le proteste del mondo delle armi,
venatorio e sportivo, hanno fatto marcia indietro. L’attuale riforma in
discussione dunque vieterebbe solo le semiautomatiche con una capacità
superiore a un certo numero di colpi, permettendo l’acquisto delle altre
con alcune restrizioni. Di fatto sulla direttiva però è ancora in corso
il negoziato tra il Parlamento, la Commissione e il Consiglio. Tanto
che il 14 novembre un gruppo contrario alle restrizioni, Firearms
United, ha convocato una conferenza proprio a Bruxelles.
Dal suo
canto, l’Italia su questo fronte si era mossa in anticipo. «La legge
antiterrorismo del 2015 ha tolto questi fucili dalle armi da caccia e li
ha messi fra le armi comuni, sottoponendoli a maggiori controlli»,
commenta Beretta. In generale, gli stessi esperti di controllo delle
armi ritengono che le leggi italiane al riguardo siano abbastanza
stringenti. Il problema è semmai un altro: la difficoltà di avere dati
ufficiali. A partire dal numero di armi legalmente vendute in Italia.
«Quante ce ne sono nel nostro Paese? Non dovrebbe essere difficile
saperlo, visto che la vendita è controllata. Eppure non lo sappiamo»,
commenta Beretta. Le stime di diversi centri di ricerca oscillavano fra i
7 e i 12 milioni.
Specie ai fini dell’antiterrorismo, però,
mercato interno e mercato estero sono entrambi da monitorare. La ragione
risiede nel fatto che il mercato nero si alimenta anche di pezzi
militari venduti in precedenza in alcune regioni, e poi passati di mano.
«Per cui compri il fucile nell’Est e all’occorrenza lo porti in Belgio e
te lo fai riconfigurare», dice Francesco Vignarca, coordinatore della
rete Disarmo. «Le armi non scadono. Se mandi una partita di cento fucili
in Libia poi non sai dove finiscono». Per questo la richiesta delle
associazioni è di avere una maggiore tracciabilità anche dell’export di
armi da fuoco, un registro europeo, e dei controlli continuativi nel
tempo.
In quanto ai testi di legge in discussione al Parlamento
italiano, troviamo proposte molto specifiche. Ad esempio, il ddl 2216
vuole introdurre criteri più restrittivi di idoneità psico-fisica per il
rilascio delle licenze di porto d’armi, includendo anche la presenza di
«gravi disturbi della personalità» e non solo di una «patologia
psichiatrica conclamata». Mentre la proposta 3809 vuole aumentare la
frequenza delle visite mediche specialistiche per gli appartenenti alle
forze dell’ordine al fine di attestare la loro idoneità
psico-attitudinale. E prevenire situazioni di rischio anche dovute al
forte stress.