Corriere 6.11.16
Sistema carcerario, gesti simbolici e azioni concrete
di Luigi Ferrarella
Se
15 detenuti usando la violenza avessero scatenato una rivolta
carceraria e fossero saliti sul tetto di San Vittore o di Poggioreale,
avrebbero già monopolizzato l’attenzione 24 ore su 24 di dirette tv e
paginate di giornali. Invece è una non-notizia, nel senso che non è
notiziato, il fatto che non 15 ma 15.000 dei 55.000 detenuti stiano
digiunando oggi non per protestare, ma come gesto di non violenza per
aderire (ad esempio con Acli, Libera, Comunità di Sant’Egidio, Cgil e 40
parlamentari di vari partiti) all’odierna «Marcia per l’amnistia, la
giustizia, la libertà» promossa dal Partito radicale dal carcere romano
di Rebibbia a piazza San Pietro e intitolata a «Marco Pannella e papa
Francesco», proprio nello stesso giorno del «Giubileo dei Carcerati»
fortemente voluto dal Pontefice come penultimo evento del Giubileo della
Misericordia.
È solo il più eclatante esempio della miope
inconsapevolezza che ancora circonda la questione del sistema
penitenziario, cruciale nella qualità della esecuzione della pena
(salute, percorsi rieducativi, scuola e lavoro, logistica) e non
riducibile invece soltanto al sovraffollamento carcerario, che peraltro,
pur mitigato rispetto ai 67.000 detenuti del 2011, torna a dare segnali
preoccupanti con quasi duemila detenuti in più in 12 mesi e con 55.000
presenze in una capienza dichiarata di 50.000 posti teorici.
Inconsapevolezza confermata pure dal bizzarro riscontro della visita
mercoledì a Brescia del ministro della Giustizia Orlando, da tempo
convinto «evangelizzatore» dell’ovvietà (purtroppo non così scontata)
per la quale non ha senso continuare a spendere 3 miliardi di euro
l’anno per un sistema carcerocentrico se poi come risultato esso
produce, in chi esce dal carcere una volta espiata la pena, tassi di
recidiva (e quindi di insicurezza per i cittadini) incomparabilmente
superiori alle «ricadute» delinquenziali dei detenuti che scontino
invece parte della propria pena in forme alternative al carcere, specie
se in un percorso di istruzione e di avviamento al lavoro «vero» (che
oggi esiste solo per un fortunato 3 per cento dei detenuti):
dell’interessante intervento del Guardasigilli non è passata una riga
sui media, salvo che «nel 2018 si farà il nuovo carcere a Brescia»,
unica briciola di notizia subito recepita nella versione locale del
pseudosalvifico luogo comune carcerocentrico, alimentato peraltro anche
da settori della magistratura e dall’attuale dirigenza Anm.
E così
finirà che toccherà ancora a papa Francesco, con il potente gesto di
oggi, spendersi — come già il 23 ottobre 2014 nel discorso
all’Associazione internazionale di diritto penale — per testimoniare che
non si smette di essere persone per il solo fatto di essere
imprigionati a motivo del reato commesso; per avvertire che «si è
affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre
sanzioni penali alternative»; e per contrastare la mentalità diffusa che
solo con «una pena pubblica si possano risolvere i più disparati
problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse
raccomandata la medesima medicina».
Eppure, per non sprecare
l’inversione di tendenza che timidamente sembrava poter attecchire (a
fronte di 55.000 detenuti stanno scontando la propria pena in misure
alternative al carcere altri 33.200 condannati), sarebbe importante
andare oltre i «gesti simbolici». Lo è stato indubbiamente quello di
Renzi il 28 ottobre a Padova, primo presidente del Consiglio a visitare
un carcere. Ma per evitare che si risolva nell’ennesima toccata e fuga,
l’occasione di fare invece qualcosa di concreto ci sarebbe. Ormai 7 mesi
fa, infatti, si sono conclusi gli «Stati generali dell’esecuzione della
pena» convocati dal ministro Orlando nel maggio 2015 per trarre utili
indicazioni dalle migliori competenze del settore, riunite in 18 tavoli
di studio. Questo prezioso lavoro, coordinato dal professor Glauco
Giostra, ha alimentato una unanimemente apprezzata proposta di delega al
governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, che però da
allora giace impantanata perché improvvidamente mescolata
nell’eterogeneo calderone del disegno di legge sul processo penale,
notoriamente paralizzato da veti politici incrociati sui divisivi temi
della prescrizione e delle intercettazioni. Tirarla fuori da questa
palude, e mandarla avanti da sola per una spedita approvazione, questo
sì che sarebbe un «gesto simbolico».