La Stampa 6.11.16
La diminuzione di iscritti negli atenei
è un indebolimento strategico dell’Italia
risponde Maurizio Molinari
Caro Direttore,
in
molti si lamentano che in Italia ci sono pochi laureati rispetto alla
media europea. Si sottolinea l’importanza dello studio e delle
conoscenze, ci si arrabbia per la cattiva educazione e il pessimo
livello scolastico e si protesta quando vengono tagliati i fondi
destinati all’istruzione.
Ma allora perché lo studio, la
conoscenza e le lauree non contano nulla quando si tratta di esprimere
la propria opinione, diffondere informazioni o scegliere i propri
rappresentanti?
Io capisco che le buone intenzioni debbano essere
premiate e che un titolo di studio possa essere solo un pezzo di carta
che non fornisce nessuna garanzia di onestà e correttezza morale, ma non
dovremo forse considerarlo un requisito minimo, almeno per le cariche
pubbliche?
Alvise Giunta
Caro Giunta, il problema
che solleva è la cartina tornasole di un fenomeno assai più vasto.
Negli ultimi dieci anni i nostri atenei hanno registrato un calo
progressivo delle iscrizioni: dalle 336 mila del 2003/2004 alle 270 mila
del 2014/2015. È un arretramento che registra i dati più negativi -
fino al 20 per cento in meno - fra Campania e Calabria, Sicilia e
Sardegna. A ciò bisogna aggiungere che, secondo Eurostat, nel 2015 solo
il 25,3 per cento degli italiani fra i 30 e 34 anni aveva una laurea,
posizionandoci all’ultimo posto fra i Paesi dell’Unione Europa. Insomma,
non solo vi sono cariche pubbliche senza laurea ma cresce il numero
degli italiani che diserta gli atenei.
Nel complesso, abbiamo meno
laureati di tutti in Europa e le iscrizioni agli atenei scendono: è un
serio campanello d’allarme sull’indebolimento strategico del Paese. A
cui si può porre rimedio, riuscendo a rendere atenei, corsi e docenti
più competitivi.