Il Sole 6.11.16
Gli errori dei leader
Le regole prime vittime del duello Usa
di Luigi Zingales
A
due giorni dal voto, con 33 milioni di schede già consegnate, l’esito
delle elezioni presidenziali americane sembra ancora molto incerto. Gli
ultimi sondaggi danno i due candidati pressoché alla pari, mentre i siti
di scommesse vedono Hillary Clinton in leggero vantaggio. Ma non
sarebbe la prima volta che sbagliano. I sondaggisti sono molto più bravi
a predire le preferenze politiche che la partecipazione al voto e oggi
le elezioni si vincono motivando i propri elettori a votare, non
convertendo gli elettori altrui. Come hanno sbagliato per la Brexit, c’è
il serio rischio che i sondaggi sbaglino anche qui. La tensione è
talmente alta che gli psicologi hanno notato un aumento degli attacchi
di ansia tra i loro pazienti. Il mondo intero guarda con il fiato
sospeso. Siamo veramente sull’orlo del baratro?
Penso proprio di
no. Con tutta probabilità la Camera avrà una maggioranza repubblicana e
il Senato una democratica. Quindi chiunque vincerà le elezioni
presidenziali dovrà fare compromessi per governare. Uno svantaggio se si
desidera un’azione di governo rapida e incisiva, ma un grosso vantaggio
se si teme che il presidente possa prendere decisioni inconsulte
(vantaggio da non dimenticare in tempi di riforme costituzionali). È
proprio questa divisione dei poteri a rassicurarci che il danno
potenzialmente prodotto da un presidente degli Stati Uniti sia limitato.
Per questo, chiunque risulti eletto attuerà una politica fiscale più
espansiva, una politica estera più isolazionista e avrà una maggiore
riluttanza a firmare nuovi trattati di libero scambio. Queste sono le
indicazioni emerse durante le lunghe primarie e questa sarà la direzione
di marcia del nuovo presidente chiunque esso sia. Giudici della Corte
Suprema a parte, chi vincerà la corsa presidenziale non sarà così
determinante per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Non per questo
la campagna elettorale non lascerà un segno, anzi.
Il primo segno
riguarda la massa di “deplorevoli”, come li ha chiamati Hillary
Clinton, alla ricerca di una rappresentanza politica.
Sono
l’americano medio che non vede crescere il proprio reddito reale da
quarant’anni, sono gli operai che vedono il loro lavoro eliminato e non
hanno prospettive per riqualificarsi, sono i senzalavoro che si
suicidano lentamente imbottendosi di medicine offerte dal servizio
sanitario nazionale. Quello stesso stato sociale che non li aiuta quando
sono in difficoltà, distribuisce loro gratuitamente e copiosamente le
medicine più pericolose, per la gioia dell’industria farmaceutica.
Questi “deplorevoli” sono disposti a tutto pur di cambiare
l’establishment di Washington, anche a votare per un candidato
considerato deplorevole. Anzi più è considerato deplorevole dalla
maggior parte dei media, e più lo sostengono, perché si identificano con
lui. Che Trump vinca o no, questa massa ha assunto rilevanza politica e
non la perderà facilmente.
Il secondo segno riguarda la fine dei
partiti tradizionali come li abbiamo conosciuti. Il Partito Repubblicano
si era basato su una coalizione tra una élite pronta a sacrificare la
tolleranza sui diritti civili per la difesa dei suoi interessi economici
e una base pronta a sacrificare il suo naturale protezionismo e
isolazionismo, in nome della difesa dei tradizionali valori cristiani.
Trump ha spezzato questa coalizione dimostrando che si può vincere le
primarie rivolgendosi solo alla base. Dopo questa rivelazione è
difficile immaginare se e come il Partito Repubblicano possa
sopravvivere senza rifondarsi completamente. Ma anche il Partito
Democratico affronta una crisi esistenziale. Si era basato su una
coalizione tra le minoranze etniche e una élite che aveva scoperto i
benefici i benefici dell’interventismo statale per i grandi gruppi. Come
lo scandalo delle email ha rivelato, questa élite non ha esitato a
truccare le regole del gioco per far vincere il suo candidato a spese di
Bernie Sanders. Se Hillary Clinton è così in difficoltà con un rivale
come Trump vuol dire che i “deplorevoli” democratici e parte dei giovani
l’hanno abbandonata.
Ma il cambiamento più rilevante riguarda
l’atteggiamento degli americani verso il proprio sistema politico. Nel
1960 Nixon riconobbe (senza alcun ricorso) la vittoria di Kennedy
nonostante in Illinois avessero votato anche i morti. Dopo una battaglia
giudiziaria, nel 2000 Gore riconobbe la vittoria di Bush in Florida per
154 voti, nonostante i dubbi sui voti espressi. Oggi da una parte Trump
mette in dubbio preventivamente i risultati delle elezioni se a vincere
non sarà lui, sulla base di ipotetici brogli di cui non c’è alcuna
evidenza. Dall’altra, Hillary Clinton mette in dubbio l’imparzialità e
indipendenza dell’Fbi per coprire i propri errori. Se gli stessi leader
accusano il sistema di essere truccato, come può l’americano medio fare
diversamente?
Questa rischia di essere l’eredità più pesante di
queste elezioni. Senza un’accettazione delle regole del gioco è
impossibile per un presidente raccogliere il Paese dietro di sé. E senza
questa coesione è difficile governare. Noi italiani lo sappiamo fin
troppo bene. Per questo le regole del gioco devono cambiare per
riguadagnare credibilità, a partire dal modo in cui i finanziamenti
elettorali sono raccolti. Difficile immaginare che, se eletti, questi
candidati vadano in questa direzione. Ma se non lo faranno, a soffrire
non sarà solo la democrazia americana, ma il mondo intero.