Il Sole 6.11.16
Gran Bretagna
Il cocktail populista tra crisi e paura
di Luca Ricolfi
Qualche
mese fa i cittadini del Regno Unito hanno preferito dare retta a
Farage, leader populista dell’Independence Party e favorevole alla
Brexit, piuttosto che ai leader dei partiti tradizionali, il
conservatore Cameron e il laburista Corbyn. Poco prima, in Austria,
l’elezione del presidente della Repubblica (poi annullata: sarà ripetuta
il mese prossimo) aveva registrato un sostanziale pareggio fra il
candidato progressista Van der Bellen e il candidato populista Hofer, di
tendenze xenofobe e anti-europee. Fra un paio di giorni i cittadini
americani sceglieranno fra la candidata democratica alla presidenza
Hillary Clinton e il candidato repubblicano Donald Trump, anch’egli
populista e xenofobo, come Farage e Hofer.
Tre elezioni, tre casi
in cui, comunque vada, la vittoria è stata (o presumibilmente sarà) di
stretta misura, e circa metà dei votanti ha comunque mostrato di non
disdegnare affatto l’alternativa populista. Ce n’è abbastanza per
chiedersi: come mai? Perché, nel giro di pochi anni, un fenomeno
importante, ma tutto sommato marginale, dei sistemi politici dei Paesi
avanzati ha fatto irruzione sulla scena pubblica sia al di là che al di
qua dell’Atlantico?
Abbiamo documentato, in un precedente dossier
della Fondazione Hume (pubblicato due domeniche fa, e disponibile sul
nostro sito), come la geografia del populismo in Europa sia
profondamente cambiata. Oggi, nei Paesi dell’Unione, i partiti populisti
o euroscettici sfiorano il centinaio, e sono presenti in 24 Paesi su
28. Comunque si definiscano i confini esatti del fenomeno, il suo peso è
approssimativamente raddoppiato fra il 2009 e il 2014 (ultime due
elezioni per il Parlamento Europeo). E tutto fa pensare che, dal 2014,
possa essere cresciuto ancora: una stima prudente della forza dei
movimenti euroscettici o populisti (forze ESP, d’ora in poi) è che, nel
2016, essi attirino circa un elettore su tre.
Ora un nuovo dossier
della Fondazione Hume offre qualche spunto di riflessione sulle cause
dell’avanzata populista in Europa. Su questo, come noto, i pareri di
studiosi e osservatori sono alquanto divisi. Per alcuni la matrice del
populismo sono le politiche di austerità (con conseguente aumento delle
diseguaglianze), che le classi dirigenti europee avrebbero imposto ai
loro popoli. Per altri, invece, l’elemento cruciale che ha favorito
l’ascesa dei movimenti populisti è l’ingresso disordinato e illegale dei
migranti in Europa, soprattutto a partire dal 2011, a seguito delle
crisi esplose in Africa e in Medio Oriente. Inutile aggiungere che la
prima spiegazione è la più congeniale alla sinistra, la seconda alla
destra.
Secondo il dossier della Fondazione Hume, tuttavia,
entrambe queste spiegazioni sono poco compatibili con l’evidenza
empirica disponibile. Non solo perché né l’una né l’altra spiegano il
fenomeno Trump (gli Stati Uniti hanno accuratamente evitato le politiche
di austerità, e non hanno subito alcuna esplosione del flusso di
immigrati), ma perché, anche in Europa, le variabili che meglio spiegano
l’avanzata delle forze ESP paiono essere altre.
Sul versante
dell’economia, la variabile cruciale non è l’adozione di politiche di
austerità (supervisione della Troika, risanamento dei conti pubblici),
né l’aumento delle diseguaglianze, né la caduta del Pil, ma l’ampiezza
della crisi occupazionale, indipendentemente dalle politiche che possono
averla determinata.
Sul versante sociale, la paura
dell’immigrazione pare effettivamente aver alimentato il consenso alle
forze ESP, ma non risulta essere stata la variabile più importante.
Dietro l’avanzata populista ed euroscettica sono all’opera anche altri
fattori, sia oggettivi sia soggettivi: i tassi di criminalità dei vari
Paesi europei (specie il numero di furti per abitante), che alimentano
le preoccupazioni per l’immigrazione, ma soprattutto la paura del
terrorismo che, specie nei Paesi vittime di attentati gravi e
relativamente recenti (Belgio, Francia, Regno Unito), era molto forte al
momento del voto per il Parlamento Europeo (maggio 2014).
Non è
tutto, però. Le evidenze statistiche raccolte nel dossier suggeriscono
che le due variabili-chiave, crisi occupazionale e paura
(dell’immigrazione e soprattutto del terrorismo), interagiscono fra di
loro moltiplicando i propri effetti. La crisi non solo sospinge il
consenso elettorale verso le forze populiste, ma amplifica gli effetti
della paura. Simmetricamente la paura rafforza le spinte populiste, ma
al tempo stesso amplifica gli effetti della crisi. A quanto pare, è il
cocktail fra crisi occupazionale e paura del diverso, spesso pensato
come terrorista prima ancora che come immigrato, l’elemento che ha
impresso all’ascesa populista degli ultimi anni il suo ritmo
travolgente.
Quando si adotta questo tipo di lettura, che lascia
sullo sfondo politiche di austerità e immigrazione, e sottolinea il
ruolo cruciale del cocktail “crisi occupazionale + timore per il
terrorismo”, diventa molto più facile capire ciò di cui, specie in
Europa, ancora non riusciamo a capacitarci, ovvero il fatto che un
personaggio come Trump possa aver raccolto tanto consenso: se il
populismo è anche una risposta alle angosce generate dalla distruzione
di posti di lavoro e dalla apparente invincibilità del terrorismo,
allora non è strano che esso alzi la testa tanto al di qua quanto al di
là dell’Atlantico.