giovedì 3 novembre 2016

La Stampa 3.11.16
Il voto sotto la lente dei giudici
di Marcello Sorgi

Concepita e abortita in un paio di giorni, l’ipotesi di un rinvio alla primavera, causa terremoto, del referendum costituzionale del 4 dicembre, ha tenuto tuttavia con il fiato sospeso la politica italiana, lasciando tra l’altro emergere una divergenza di non poco conto tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Interno, che ha la responsabilità istituzionale dell’apertura delle urne.
Il «no» secco di Palazzo Chigi, espresso ieri mattina con un comunicato di una sola riga, ha chiuso repentinamente ogni discussione al proposito, compresa l’apertura che solo poco prima Alfano aveva fatto rispetto all’idea di spingere in avanti la consultazione, invitando le opposizioni, tutte o in parte, a prendere chiaramente posizione. A favore di uno spostamento della data, va ricordato, si era espresso per primo Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi e grande amico personale del Capo dello Stato: e benché si trattasse di un’uscita a titolo personale, nei corridoi di Montecitorio avevano fatto presto a circolare voci - infondate - che si trattasse di un sondaggio informale del Quirinale, addirittura d’intesa anche con l’ex presidente Napolitano.
Il rifiuto del centrodestra e il gradimento dei centristi di governo, dichiarato da Cicchitto e formalizzato da Alfano, stava poi creando una tale confusione, che Renzi ha deciso, bruscamente, di intervenire.
Per quanto il terremoto infatti abbia capovolto d’improvviso l’agenda politica, e minacci di farlo ancora, se - Dio non voglia - la furia distruttrice rivelata in questi primi giorni dovesse continuare, la proposta di rinviare il referendum era politicamente impraticabile. Neppure con la pretesa «unità nazionale» proclamata, e immediatamente smentita, da tutte le forze politiche, si sarebbe potuta costruire un’intesa tale da impedire che Renzi fosse accusato dai suoi avversari di fuggire da un passaggio elettorale che i sondaggi finora gli preconizzano infausto. Di qui la decisione del premier di sgomberare il campo.
Ma se politicamente la questione è finita sul nascere, non è detto che non possa riproporsi per via giurisdizionale, a partire dal ricorso presentato dall’ex-presidente della Corte Costituzionale Onida. L’autorevole giurista, impegnato nella campagna per il «No» al referendum, s’è rivolto alla magistratura ordinaria sostenendo che il quesito referendario, così come è posto, rischia di ingannare gli elettori, in quanto delle dieci riforme, almeno, contenute nel disegno di legge Boschi, si limita a citarne solo tre. E poiché il tribunale di Milano, come ha già fatto il Tar del Lazio, potrebbe dichiararsi incompetente rispetto alla questione, Onida ha chiesto di coinvolgere anche la Corte Costituzionale, che in passato, con diverse sentenze, aveva precisato i criteri con cui devono essere formulati i quesiti.
La Corte Costituzionale, tuttavia, è chiamata a intervenire solo sui referendum abrogativi, non su quelli costituzionali, che seguono l’iter per così dire automatico stabilito dal l’articolo 138 della Costituzione. Si va a referendum quando una riforma della Carta è approvata con meno dei due terzi dei voti parlamentari, come appunto è accaduto per quest’ultima. La Consulta dunque, come i magistrati del Tar ed eventualmente quelli ordinari di Milano, potrebbe dichiararsi incompetente e archiviare il ricorso di Onida, confermando definitivamente la data del 4 dicembre. Ma esiste una possibilità, remota quanto si vuole, che la Corte, rilevata la fondatezza del problema posto dall’ex-presidente, ed anche, perché no, per rispetto a un giurista che ha seduto su quei banchi, emetta una «sentenza-monito»: uno di quegli espedienti, già adoperati in passato, con cui, pur riconoscendo i limiti che non le consentono di intervenire su una materia da cui è esclusa, i giudici della Consulta chiederebbero al Parlamento di riesaminare la legge istitutiva del referendum, per sanare la disparità che assegna loro pieni poteri sulle consultazioni abrogative, e invece glieli toglie quando si vota sulle riforme costituzionali. In quel caso, il referendum del 4 dicembre sarebbe rinviato sine die. Il Parlamento di fine legislatura, ridotto com’è ridotto, dovrebbe impegnarsi, prima di ogni altra cosa, a riscrivere una legge di quarantasei anni fa. E la Corte Costituzionale, nel frattempo, potrebbe dedicarsi all’Italicum: magari completando l’affondamento di Renzi che finora non è riuscito al fronte del «No».