La Stampa 30.11.16
La sfida persa nei confronti dell’antipolitica
di Giovanni Orsina
Siamo giunti quasi al termine di questa pessima campagna elettorale (finalmente).
Proviamo
per un istante a riavvolgere il nastro e a tornare alla domanda di
fondo: ma a che cosa doveva mai servire questa riforma costituzionale?
«A rendere le istituzioni italiane più efficienti» è una risposta
corretta ma parziale. L’altra parte della risposta è: «a dimostrare che
la politica è in grado di riformare se stessa, così da riassorbire
l’antipolitica». Si ripensi del resto al punto d’origine della riforma,
nei mesi successivi alle elezioni del 2013: la marea grillina, lo
stallo, la rielezione di Napolitano. Ora, se ci soffermiamo su questo
secondo obiettivo, dobbiamo riconoscere che – comunque vada il
referendum – la riforma costituzionale non l’ha raggiunto. Il che non
vuol dire naturalmente che il risultato del voto di domenica sia
irrilevante: se vincerà il no, il bersaglio sarà stato mancato del
tutto; se invece prevarrà il sì, lo sarà stato soltanto in parte.
Quell’obiettivo
è stato mancato perché, nel corso del suo iter lungo e tormentato, alla
riforma si è aggiunto un significato ulteriore, che da ultimo è
arrivato per tanti versi a sovrastare quello originario: da che doveva
rivolgersi contro l’antipolitica, la modifica della costituzione è
diventata l’oggetto d’una resa dei conti interna alla politica
«tradizionale». Da un lato Renzi, convinto che l’antipolitica potesse
essere riassorbita mutuandone alcune priorità e tanta retorica, oltre
che promuovendo il ricambio generazionale. Dall’altro gli esponenti
della stagione politica precedente al 2013, interni ed esterni al
Partito democratico (D’Alema e Bersani da un lato, Berlusconi
dall’altro), convinti che la strategia di Renzi – combattere
l’antipolitica cavalcandola – non stesse funzionando, e soprattutto
ostili al ricambio generazionale. Come nel capolavoro di Sergio Leone,
il duello fra la politica e l’antipolitica s’è trasformato così in un
«triello» fra l’antipolitica, Renzi, e i «pre-renziani» (il lettore
stabilisca a sua discrezione chi sia il buono, chi il brutto, e chi il
cattivo).
Accomodati fra gli stucchi del palco reale, il Movimento
5 stelle e la Lega di Salvini si son potuti godere lo spettacolo ben
poco edificante, ma a loro assai gradito, del fronte avversario che
sprecava le proprie energie in una feroce guerra intestina. Comunque
vada il referendum, perciò, quanto meno dall’iter della riforma e dalla
campagna elettorale sono proprio i grillini e i leghisti a uscire
vincitori: la politica «tradizionale» ha provveduto per l’ennesima volta
a delegittimarsi vigorosamente da sé.
Quanto in profondità andrà
la loro vittoria, come si diceva prima, dipende dal risultato
referendario. Se prevarrà il sì, la politica «tradizionale» avrà
dimostrato per lo meno che, sebbene in maniera rissosa e sgangherata,
una riforma è riuscita a condurla in porto. Come effetto collaterale
tutt’altro che irrilevante, poi, l’egemonia di quel campo toccherà a
Renzi, e toccherà quindi a Renzi decidere come proseguire: se azzardare
la prova di forza con l’antipolitica, conservando l’attuale legge
elettorale (a meno che non venga dichiarata illegittima dalla Consulta);
oppure scendere a patti con alcuni fra i settori dell’establishment
politico che hanno avversato la riforma costituzionale.
Se dovesse
vincere il no, invece, il primo e di gran lunga più importante
messaggio del referendum sarà che la politica «tradizionale» ha fallito
per l’ennesima volta. I Bersani, Berlusconi e D’Alema cercheranno a quel
punto d’intestarsi il risultato, sostenendo che non è stato un voto
antipolitico, ma un voto contro Renzi e la sua riforma pasticciata, e a
favore d’una politica migliore che faccia finalmente una buona riforma.
In bocca al lupo a loro.