La Stampa 29.11.16
Il nazionalismo economico di Trump, un rischioso ritorno al passato per gli Usa
di Andrea Montanino
La
Tesla S, vanto della nuova industria automobilistica americana, ha
freni e cerchioni italiani, antenna giapponese e diverse componenti
austriache. Ma Steve Bannon, il probabile capo della strategia per la
Casa Bianca di Donald Trump accusato di auspicare la supremazia dei
bianchi, si è recentemente espresso a favore del «nazionalismo
economico», che è l’esatto contrario della fabbrica globale.
Con
questa terminologia ha sintetizzato efficacemente le diverse opinioni
espresse dal Presidente eletto Trump in materia di politica economica
durante la campagna elettorale: il nazionalismo economico è infatti un
mix di protezionismo per le industrie nazionali, investimenti pubblici
in infrastrutture, pianificazione economica centralizzata, tutela dal
lavoro a basso costo, sia attraverso un controllo stringente
dell’immigrazione irregolare, sia con la riduzione delle importazioni
dai Paesi con basso costo del lavoro.
Più che lo sviluppo del
mercato, il nazionalismo economico auspica un maggiore ruolo pubblico a
tutela degli interessi nazionali. Poco a vedere con l’immagine degli
Stati Uniti come i paladini della competizione.
Queste posizioni
collimano con quelle di Marine Le Pen in Francia, Nigel Farage nel Regno
Unito e Matteo Salvini in Italia: Trump e il suo entourage potrebbero
dare dignità di pensiero a questo approccio, concettualizzarlo e
metterlo in pratica. La Trumponomics potrebbe allora guidare negli anni a
venire le grandi tendenze, così come il Thatcherismo e la Reaganomics
segnarono gli Anni 80.
E’ certamente un ritorno al passato, per un
Paese che ha eretto barriere per tutto il diciannovesimo secolo e parte
del ventesimo con lo scopo di tutelare la nascente industria dalle
merci inglesi. Ma è un passato che non può ritornare, per diversi
motivi.
In primo luogo, il mondo è oggi molto più interconnesso
che in passato. I mezzi di comunicazione disponibili permettono di
conoscere istantaneamente cosa succede in qualunque parte del mondo ed è
impossibile imporre barriere all’informazione: un cittadino
dell’Alabama incentivato a comprare solo prodotti americani potrebbe
facilmente confrontare prezzi e qualità di prodotti simili venduti in
altre parti del mondo, chiedendosi perché non può accedere a tali
prodotti a un prezzo ragionevole. Senza contare che i mezzi di trasporto
permettono alle merci di arrivare prima e a costi più ridotti che non
nel passato.
In secondo luogo, molti beni sono ormai il risultato
di un processo di produzione che non inizia e si conclude nello stesso
stabilimento, ma vede la collaborazione di più produttori, sparsi in
diversi luoghi. L’applicazione del nazionalismo economico
significherebbe predisporre una pianificazione pluriennale che sviluppi
all’interno del territorio tutte quelle competenze che oggi sono
comprate all’estero per produrre beni tecnologicamente avanzati, come
appunto la Tesla S.
In terzo luogo, gli Stati Uniti sono
interconnessi con il resto del mondo attraverso il loro debito pubblico.
Ad oggi, il 33 per cento del debito è detenuto da stranieri, era il 13
per cento a metà degli Anni 70: il nazionalismo economico auspica una
riduzione della dipendenza dagli stranieri, anche in materia di debito
pubblico, ma la politica degli investimenti annunciata da Trump porterà
quasi certamente a un suo aumento ed è difficile pensare di rifinanziare
il debito pubblico senza il contributo degli investitori istituzionali
stranieri.
In quarto e ultimo luogo, la pianificazione è molto
complessa in un mondo dove le variabili esterne crescono di rilevanza e
non sono controllabili da chi pianifica: si pensi all’impatto che ha
avuto il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 sulle economie di tutto
il mondo in modo totalmente imprevisto e non incorporabile in nessun
piano pluriennale centralizzato.
Tornare al passato è allora impossibile. Volerci provare è però molto pericoloso.