La Stampa 29.11.16
Romain Gary, padre di tutte le Ferrante
Lo scrittore francese si inventò un “doppio” con cui rivinse il Goncourt
In libreria la sua confessione postuma, Vita e morte di Emile Ajar
Romain
Gary sposò Jean Seberg, l’attrice di Fino all’ultimo respiro di Godard.
Lei morì suicida nel 1979, lui si uccise nel 1980, a 66 anni
di Mario Baudino
Romain
Gary, oltre a essere un grande scrittore, è stata una di quelle figure
pubbliche che la Francia ha saputo esaltare nel ’900: pilota di guerra
(come Saint-Exupéry e André Malraux), eroe gollista, dandy va da sé,
elegantissimo e provocatorio, carisma indiscutibile, belle donne e vita
inimitabile, o quasi. Si uccise con un colpo di pistola nella casa di
Rue du Bac, a Parigi, il 2 dicembre 1980, uscendo alla sua maniera da
una vita dove soltanto sesso e letteratura gli parevano offrire un
qualche spunto di senso. Era passato poco più di un anno dal suicidio
della seconda moglie, l’attrice Jean Seberg, indimenticabile
protagonista di À bout de souffle.
Gary aveva 66 anni, e morendo
completò l’edificio per la sua leggenda critica. Oppure, se vogliamo, il
suo romanzo totale. Pochi mesi prima aveva scritto una breve memoria,
che il 30 novembre spedì all’editore Gaston Gallimard perché la
pubblicasse postuma. Si intitolava Vita e morte di Emile Ajar e
terminava con un saluto piuttosto ironico: «Mi sono davvero divertito.
Arrivederci e grazie». Ajar era il suo doppio, un autore inventato che,
salvo qualche sospetto circolato negli anni, nessuno era riuscito a
identificare in lui con un minimo di documentazione, benché Gary fosse
sicurissimo che sarebbe bastata una lettura attenta dei suoi romanzi.
Un giovane «arrabbiato»
Lui
era un uomo maturo, Ajar un immaginario giovane «arrabbiato» che viveva
in Brasile per certi conti irrisolti con la giustizia francese. Lui
vinse un Goncourt nel 1956 (con Le radici del cielo), Ajar replicò
trionfalmente nel 1975 con La vita davanti a sé. In quell’occasione un
critico dell’Express si dichiarò sicuro che il giovane scrittore dovesse
qualcosa a Gary almeno nel primo libro, e che anzi si fosse fatto
aiutare da più persone, insomma rappresentasse una sorta di collettivo;
ma che poi avesse spiccato da solo i successivi voli.
La vicenda,
riletta oggi, ricorderà a molti le ampie discussioni anche molto
polemiche sul caso Ferrante, ipotesi comprese sull’identità
dell’autrice; ma come vedremo c’è, volendo, di più. Vita e morte di
Emile Ajar è stato ora pubblicato da Neri Pozza - che da anni ripropone i
romanzi dello scrittore francese - con testo a fronte e alcune
fotografie sulla Costa Azzurra insieme con la Seberg, belli e assorti. È
un testamento divertito (appunto) e un poco sprezzante, nella forma
dell’orgoglio.
Gary sa, e lo scrive, che la letteratura sta
naufragando nella futilità, contro la quale ha combattuto, dice,
correndo «un’avventura senza precedenti per rilevanza nella storia
letteraria»: a suo giudizio unica, a eccezione di «quella di McPherson
che inventa il poeta Ossian, all’inizio del XIX secolo». Era l’esatto
opposto dello scrittore reclusivo, non si sdoppiò certo per timore o
ripulsa della scena pubblica. Voleva anzi dimostrare fino a che punto un
autore può restare «prigioniero della “faccia che gli hanno creato”,
come diceva bene Gombrowicz. Una “faccia” che non c’entra nulla con la
sua opera e nemmeno con lui stesso».
Qualcosa di simile fece Doris
Lessing quando mandò all’editore un romanzo firmato Jane Sommers.
Voleva provare che nulla crea successo più del successo, e infatti il
libro venne respinto, salvo essere pubblicato in pompa magna (col titolo
Il diario di Jane Sommers) quando l’autrice si rivelò. Nel suo caso
c’era però un’intenzione che si potrebbe definire sociologica. In quello
di Gary c’era anche un desiderio di rivalsa, oltre a un ambizioso
progetto letterario. Quando decise di firmare con lo pseudonimo
l’esordio di Ajar, Mio caro pitone, la critica francese lo riteneva
infatti uno scrittore che aveva ormai dato di sé tutto il meglio,
insomma un autore un po’ sorpassato, diciamolo pure, un trombone.
Situazione insopportabile per un personaggio del suo carattere e del suo
calibro.
«Bastava leggere»
Scrisse così, a sessant’anni
(nel ’74), il romanzo di un ragazzo e dell’angoscia che prova per il
solo fatto di avere tutta la vita davanti a sé. Non fu difficile entrare
in quei panni, dice nell’addio: «Ci lavoravo da quando avevo
vent’anni». E non bastò che un’amica, avendogli visto il manoscritto sul
tavolo, nella villa di Maiorca, debitamente firmato, ne parlasse
successivamente coi giornali. Semplicemente non fu creduta. Quando si
alzava un vento di sospetto, per esempio a causa di certe coincidenze
stilistiche, lo scrittore aveva buon gioco a replicare che come si sa i
giovani tendono a imitare i vecchi; ma riferimenti, giri di frase e non
solo tematiche che gli sfuggivano dice lui per pura distrazione, da un
romanzo all’altro, da un’identità all’altra, non venivano presi in
considerazione.
«Eppure, bastava leggere», commenta un po’
guascone e un po’ bisbetico nel suo testamento (un trapassato ne avrà
del resto ben diritto): semplicemente nessuno l’ha fatto. Forse esagera,
ma è indubbio che disseminò indizi per ogni dove. Dovendo fornire un
volto ad Ajar, da esibire però con infinita parsimonia, ricorse a un
lontano cugino, che stette al gioco ma fino a un certo punto. E tuttavia
neppure il mezzo tradimento di questo Paul Pavlovitch riuscì a
strappargli la maschera. Forse nessuno lo voleva veramente, certo non lo
sapremo mai.
Da Hamil Raja a Anita Raja
Romain Gary, nel
suo addio, rivendica di aver realizzato, per un attimo, il «romanzo
totale» dove l’autore stesso diventa un personaggio, in una fuga di
specchi. Che è poi la costante della sua vita, visto che nacque (e
pubblicò il primo libro) come Roman Kacew, ebreo lituano; non solo,
scrisse anche come Fosco Sinibaldi e come Sathan Bogat, ma senza
successo.
Proprio il suo romanzo totale ha però qualche riga che
paradossalmente sembra riguardarci. Enumerando le varie ipotesi fatte
dai giornali sull’identità di Ajar quando uscì Mio caro pitone, oltre ai
nomi di Queneau e Aragon come possibili autori avanzati dal Nouvel
Observateur perché un libro simile «non poteva che essere l’opera di un
grande scrittore», Gary ricorda come sia stato proposto anche quello di
un più inquietante e misteriosissimo Hamil Raja, terrorista libanese:
che lo divertì oltremodo. Ed è almeno curioso notare come Elena
Ferrante, da noi, sia ormai correntemente identificata in Anita Raja,
nota soprattutto in quanto traduttrice. Dunque, ipotesi fantaletteraria,
potrebbe aver letto Vita e morte di Emile Ajar quando uscì in Francia
per la prima volta. E aver colto un richiamo, chissà, un mandato. La
letteratura sa giocare scherzi indicibili.