La Stampa 29.11.16
Zagrebelsky
“Costituzione sotto attacco”
Il giurista del fronte del No: “Costituzione indifesa come a Weimar. Fermiamo gli apprendisti stregoni”
“Parlamento
illegittimo, non poteva cambiare la Carta. Ma i garanti tacciono
Mourinho direbbe: riforma zero tituli. Col proporzionale torna la
politica”
intervista di Giuseppe Salvaggiulo
Il
professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita,
Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione
di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un
argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro
della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho,
Weimar e De Gregori.
Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo?
«Questa
è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si
giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che
li può far vivere».
Cosa intende per contesto?
«Tra il ‘46 e
il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo
strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma
divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la
materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la
mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso
referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti».
La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta.
«Davvero
si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di
partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A
proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1».
In che modo?
«La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti».
Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica.
«La
prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché
ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed
eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il
Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto
possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti
aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi
perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma
costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti
col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti
della Costituzione fanno finta di niente e tacciono».
Chi sono i garanti?
«Dal
presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di
Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un
“partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi
contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso».
Perché è violato l’articolo 1?
«L’articolo
1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle
forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è
stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata
un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu
tituli».
Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza.
«Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”».
Ora, però, decide il popolo.
«Pensare
che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia
è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a
Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una
consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la
mano».
Che cosa imputa a Renzi?
«Nulla. Però non c’è
saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non
appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non
deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il
governo sotto».
Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta?
«In
un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il
governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge,
dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con
enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo
nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La
democrazia è cosa molto più complicata».
Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo.
«Il
presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo
discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti
parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti,
nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!),
riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di
unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto».
Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi?
«Non
mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal
mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione
contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è
parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato,
dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?».
Lo rifarebbe?
«Mah!
Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo!
D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a
effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto
cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che
ricorda analoghe promesse berlusconiane».
Preparerebbe carte a sorpresa?
«Certo
che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una
meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni.
Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è
chiarire, ma colpire».
C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza?
«Tutt’altro!
Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli
occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il
munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro
risate».
Che succede se vince il Sì?
«Non si apre la strada a
una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento
del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali
saranno le poche mani di domani».
E se vince il No?
«Si
potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti
e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei
cosiddetti governi tecnici o istituzionali.
E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati?
«Agitare
queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che
adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è
lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i
cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura».
Bisognerà riscrivere la legge elettorale.
«Molte
ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che
meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema
multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di
riforme anche costituzionali».
Che cosa farà il 5 dicembre?
«Questa
campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò
tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada».