La Stampa 26.11.16
Renzi: “Bisogna che vinca il Sì. Saremo più forti in Europa”
Il
premier alla Stampa: “Se passa il No Berlusconi non troverà me al
governo ma Grillo Non importa cosa farò io dopo, ho 41 anni e nulla da
aggiungere al mio curriculum”
intervista di Jacopo Iacoboni
«Se
vince il Sì andremo in Europa con più forza a spiegar loro come fare su
migranti, economia, e posti italiani a Bruxelles». Uscendo dalla
redazione de La Stampa - dove ieri mattina ha risposto in una
videointervista alle domande di Massimo Gramellini e dei lettori -
Matteo Renzi parla di quella che è per lui la sfida cruciale del
referendum del 4 dicembre, e il suo messaggio di fondo: se vince il No,
dice, torneranno tecnocrati alla Mario Monti che vessano i cittadini,
alzano le tasse, e rimettono il segno meno davanti ai dati del Pil. Se
vince il Sì, secondo il premier, «l’Italia sarà più stabile e in grado
di dettare condizioni all’Europa. Indicheremo una terza via, per
rispolverare un’espressione clintoniana», e l’idea che espone in
redazione è di sfuggire all’alternativa tra Trump e Angela Merkel, tra
populisti e globalisti. «Il mondo in questo momento è dibattuto, con la
Russia che sappiamo, con l’effetto Trump che aleggia, con la Brexit». In
questo scenario lui vede uno spazio, un’opportunità, di far pesare una
via italiana: «Noi siamo quelli che hanno fatto mettere agli atti,
davanti alla Cancelliera, le perplessità sull’austerity». Oppure, per
farsi sentire di più: «Noi diamo all’Europa venti miliardi tutti gli
anni e ne prendiamo indietro dodici. Se di questi dodici ne lasci per
strada una parte, hai vinto il premio Nobel per la stupidità. Mentre ci
impegniamo a riequilibrare questo rapporto di venti a dodici, intanto ci
siamo detti: spendiamo meglio questi dodici».
La «vera» Casta
Ambizioni
europee come queste passano ora, inesorabilmente, dal voto sul
referendum costituzionale. Dopo questa aspra campagna elettorale, con
accuse e controaccuse, cosa rispondere a un racconto che vorrebbe ormai
il rottamatore nei panni del simbolo di una Casta? «Dicono a noi che
siamo la Casta? Dall’altra parte, nel fronte del No, vedo un sistema che
tiene insieme cinque ex presidenti del Consiglio: Monti, De Mita,
Lamberto Dini, D’Alema e Berlusconi. Li riconosci dalla quantità di
pensioni. Berlusconi dice: “Il giorno dopo ci sediamo al tavolo con
Renzi”. No, il giorno dopo, ci trova Grillo e Massimo D’Alema, non il
sottoscritto. Cinque ex premier che per anni ci hanno detto riforme e
non le hanno fatte. Se gli italiani vogliono affidarsi a loro, prego, si
accomodino». Lo scenario che prefigura, o lo spauracchio che agita, se
preferite, è che se vincesse il No rischiamo un governo tecnico, «ma il
governo tecnico non fa l’interesse dell’Italia, spiana la porta ad altri
interessi, ad altre cose. Per questo serve la politica, un governo
politico».
Il No dell’Economist
Il presidente del Consiglio
non può non rispondere qualcosa sull’Economist, che ha scritto:
«L’Italia dovrebbe votare No». Sa che quell’articolo viene cavalcato in
rete, diventa virale, viene agitato come verità in terra dagli stessi
che un paio d’anni fa strepitavano contro i giornali della finanza e
dell’establishment: «Leggo che l’Economist parla di un governo tecnico,
loro lo chiamano tecnocratico. Magari per l’Italia è meglio, io l’ultimo
governo tecnico che ricordo, quello di Mario Monti, ha alzato le tasse e
ha prodotto il segno meno sulla crescita. Il 2017 sarà cruciale per
l’Europa, l’Italia deve avere una forte strategia europea e lo può fare
solo un governo con solidità e stabilità, un governo politico. Un
governo tecnico che dice “ce lo chiede l’Ue” non fa l’interesse
dell’Italia ma di altri».
I risultati del governo
Qualche
punto prova a rivendicarlo, anche rispondendo a domande come quella di
Corrado Attili. «Tutto possiamo dire tranne che in due anni non abbiamo
fatto niente». Ricorda quelli che a lui paiono meriti del suo governo:
«Negli ultimi due anni il nostro debito è stabilizzato, al 132 per
cento. È alto, troppo alto, ma non cresce più. Anzi l’abbiamo tagliato,
di 43 miliardi. Lo so, vogliamo fare di più, ma mia nonna diceva che il
meglio è nemico del bene». Inseguendo una perfezione mitica ci avvitiamo
nel’inazione, quella che lui chiama la palude. Situazione che, a
Gramellini che gli chiede dei limiti della riforma, riassume in una
battuta: «Questo referendum è come un viaggio in autostop; ne avete mai
fatti da ragazzi? È come se tu volessi andare da Roma ad Aosta, passa
uno che ti offre un passaggio fino a Torino. Voi che fate, accettate o
aspettate uno che vi porti ad Aosta?». Per dire che tante cose le
avrebbe volute diverse anche lui, come gli domanda il lettore Giorgo
Mari, «se avessi potuto fare da solo la riforma sarebbe stata diversa»,
ma il punto cruciale, il taglio dei costi e la fiducia data da una sola
Camera, è per lui comunque fondamentale.
L’attacco al M5S
Il
Renzi di oggi ammette diversi errori, in questa fase sta evidentemente
provando a ricucire un gap di umanità che s’era creato, e lui a un certo
punto ha avvertito. Anche agli insulti sceglie di replicare con più
ironia, o autoironia, o almeno ci prova: «Nella mia veste di scrofa
ferita e di aspirante serial killer, da parte nostra dico che la nostra
intenzione è di abbassare totalmente i toni dello scontro, anche perché
va nel nostro interesse». Però sui tagli ai costi della politica e la
doppia morale dei cinque stelle, va all’attacco: «Il M5S parla di
riduzione degli sprechi, ma prende come noi i fondi per il gruppo
parlamentare: al Senato noi abbiamo preso 30 milioni, loro 13. La
differenza è che il M5S utilizza i fondi del gruppo al Senato per pagare
la casa di Rocco Casalino, un loro dipendente. Capite? Pagano le
bollette coi soldi dei fondi del Senato, è vietato».
Per Torino,
il premier elogia come la Regione di Sergio Chiamparino sta gestendo
l’emergenza del maltempo; dice di aver incontrato «la sindaca
Appendino», in uno spirito di collaborazione reciproca. Promette un
intervento immediato per il maltempo, «i soldi ci saranno, ma bisogna
spenderli bene». E sul Moi, le palazzine del villaggio olimpico da tempo
occupate da famiglie di immigrati e profughi, assicura: «C’è massima
disponibilità a sostenere un’iniziativa finalizzata a risolvere la
situazione in modo... piemontese, quindi con grande sobrietà. Siamo
disponibili a venire incontro alle esigenze delle istituzioni».
«Se devo, me ne andrò»
In
definitiva, è un Renzi meno da selfie - anche se diversi ragazzi gliene
chiedono, quando esce dalla Stampa, e lui non si sottrae - e più
concentrato a far passare un messaggio conclusivo: l’Italia può essere
importante, nella stagione Trump-Brexit, con la Russia sullo sfondo:
«Abbiamo davanti il 4 dicembre un grande assist per segnare, cambiare
l’Italia e anche l’Europa, o sparare la palla in tribuna. La mia sorte
non è importante - risponde al lettore Fiora - non farò più l’errore di
personalizzare; ma poi gli stessi che me lo rimproverano mi domandano
continuamente “che cosa farò io?”. Rispondo così: non importa. Io ho 41
anni, ho fatto il sindaco della città più bella del mondo (Gramellini lo
interrompe: “A parte Torino”), non devo aggiungere più nulla al mio
curriculum. Non sto lì a vivacchiare, non sono adatto. Se dobbiamo
tornare alle liturgie del passato, le riunioni di maggioranza con i
tecnici, per la logica della palude, delle sabbie mobili tanti sono più
bravi di me. Io sto se possiamo cambiare». Un sassolino dalla scarpa se
lo toglie, senza nominare Enrico Letta: «Quando toccherà a me lasciare
Palazzo Chigi, uno si gira, si inchina alla bandiera e sorride, non
mette il broncio. Passerò la campanella con un sorriso e un abbraccio a
chiunque sia perché Palazzo Chigi non è casa tua ma degli italiani».