La Stampa 26.11.16
Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico
di Federico Geremicca
Ci
sono le battute, come inevitabile: «Nella mia veste di scrofa ferita e
aspirante serial killer...». Qualche faticosa autocritica: «La mia sorte
non è importante, non farò l’errore di personalizzare». Un avvertimento
a Berlusconi (e non solo) di cosa potrebbe riservare l’alba del 5
dicembre, se vincesse il No: «Lui dice “il giorno dopo ci sediamo al
tavolo con Renzi”... No, a quel tavolo ci troverà Grillo e Massimo
D’Alema». Ma nella lunga intervista concessa ieri dal premier a Massimo
Gramellini, c’è soprattutto - in controluce - l’asse portante della
possibile strategia futura: certo buona in caso di vittoria del Sì, ma
ugualmente utile anche in vista di una campagna elettorale che molti
ormai vedono vicina.
Una sorta di Renzi 3.0, che ha bisogno di una
premessa nella quale il segretario-premier, naturalmente, crede ancora:
la vittoria del Sì al referendum. Una vittoria che - a giudizio di
Renzi - farebbe dell’Italia e del suo governo (premier in testa) il
soggetto più forte in Europa, considerate le fatiche e le insidie
elettorali che attendono Angela Merkel e François Hollande. E una forza
che, acquisita in Italia, Renzi intenderebbe spendere - ed è una novità -
soprattutto in Europa: «Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia
deve avere una sua forte strategia».
Una strategia, una linea, che
il presidente del Consiglio ha sintetizzato con una battuta: «Tra
populismo e globalizzazione». Tradotto in politica - e col volto dei due
leader che oggi meglio paiono incarnare quei due filoni - fra Trump e
Merkel: una specie di terza via tra populismo nazionalista e certo
rigore tecnocratico europeo. Che comunque obbligherebbe Renzi a trovare
un equilibrio tra la fase uno del suo governo (convintamente europeista)
e l’attuale fase due, segnata da polemiche quotidiane, veti annunciati e
rivendicazione di sovranità.
Per il premier si tratterebbe, in
fondo, di dare spessore e sistematicità a quel che in qualche modo è già
stata la sua discussa pratica di governo in questi mille e passa
giorni: accompagnare a classici provvedimenti «di sinistra» iniziative
(leggi) che parlino anche all’elettorato più moderato, di centrodestra.
Un tentativo, insomma, di tener conto del vento che tira e provare ad
evitare al Pd la sorte che si è abbattuta sui socialisti spagnoli,
francesi e greci, e sugli ancora provati laburisti inglesi.
Si
tratta, come è evidente, di un tentativo non facile e già oggetto di
contestazione - nell’ultimo anno almeno - per l’implicito «snaturamento»
di approcci e valori classici e cari alla sinistra italiana. Ma
soprattutto, questa ipotetica terza via sarebbe più difficilmente
percorribile senza la forza - una sorta di investitura - che una
vittoria del Sì attribuirebbe a Renzi ed al governo, tanto sul piano
interno quanto sulle scenario europeo. Ma che possibilità ha il Sì di
prevalere nelle urne del 4 dicembre?
Difficile dirlo. Ma da
qualche giorno, paradossalmente, la campagna referendaria - dopo
tentativi di spersonalizzazione e discussione nel merito - sembra esser
tornata precisamente al punto di partenza: il referendum sul premier.
Con una novità non da poco, dettata - forse - dall’avvicinarsi della
sentenza. Infatti, al cacciamo (o salviamo) Matteo Renzi, si è andata
aggiungendo una domanda: va bene, lo cacciamo, ma dopo che succede?
Anche per questo è difficile immaginare che il rush finale di questa
campagna venga lasciato ai costituzionalisti e a dotti confronti sul
bicameralismo: lo scontro sarà tutto politico, e l’arma più forte in
mano al Sì - checché se ne pensi - oggi sembra proprio essere quella
certa e atavica paura italiana del «salto nel buio». Come forse, mesi e
mesi fa, Matteo Renzi aveva immaginato. O forse soltanto sperato.