venerdì 25 novembre 2016

La Stampa 25.11.16
Nomine Ue. Perché Roma resta fuori
di Marco Zatterin

La decisione di Martin Schulz di lasciare la presidenza dell’Europarlamento e candidarsi al Bundestag apre un nuovo risiko di poltrone europee da cui l’Italia, salvo miracoli, sarà esclusa. Non sorprende. Sono quindici anni che una parte rilevante e spesso dirigente della politica nostrana tratta i dossier europei con sufficienza o disdegno, mentre nelle altre capitali si lavora per costruire solide avanguardie a dodici stelle, funzionari nelle istituzioni e deputati nell’assemblea di Strasburgo che tutelino gli interessi del Paese. L’essere costretti a un probabile status da comprimari, che non meritiamo per Storia e vocazione, è la conseguenza d’un comportamento ispirato da miopia. O peggio.
Non serve essere europeisti per nutrire la consapevolezza dell’importanza di un ruolo di rilievo nell’Unione, seme da cui germogliano tre quarti delle leggi nazionali. Gli scettici britannici hanno sempre formato con metodo i loro eurofunzionari. Li selezionano fra i migliori, li crescono, li accompagnano sino a dove possono tornare utili al grande progetto di John Bull, quello di usare l’Europa prima che l’Unione usi lui. Favorevoli o contrari che si sia, non si può trascurare che a Bruxelles gli Stati prendono delle decisioni che influenzano la vita di tutti. Restare fuori dalla porta è una triste abdicazione.
L’Italia non ha mai avuto la presidenza dell’Europarlamento da che si vota a suffragio universale, cioè dal 1979. Ci sono stati tedeschi, francesi, spagnoli, britannici e polacchi. La politica tricolore s’è dimostrata fallimentare nel creare il profilo adeguato e, quando c’è stato, non ha fatto squadra per condurlo al vertice, pensandolo italiano prima che esponente di un partito.
L’addio di Schulz rilancia la contesa. Dovrebbe toccare a un popolare. Per l’Italia ha giuste ambizioni e un curriculum rispettabile Antonio Tajani, al quale però manca un partito ritenuto credibile e un sistema che lo sostenga. La potrebbero spuntare un francese, uno sloveno, una irlandese, o un tedesco, gente che un partito e il Paese ce l’hanno. A quel punto, l’abbondanza di gente del Ppe nelle sedie apicali costringerà a cambiare qualche altra casacca. Si scommette che salterà il polacco Tusk al Consiglio, sostituito dalla danese Helle Thorning-Schmidt, ex premier, socialista. Il match è aperto.
Se l’Italia non è in partita, e se si vede scavalcare anche nelle più ovvie nomine interne alla Commissione come quella della direzione Migranti, non è colpa dei singoli, tantomeno di quelli che tutti i giorni lavorano nella capitala belga per tenere in piedi il dialogo con partner e istituzioni. La responsabilità è di lunghi anni di scetticismo latente. E’ con Berlusconi che nel 2001 si è cominciato a snobbare l’idea dell’Ue come cosa comune. Il cavaliere contava in lire, faceva la guerra all’ex rivale presidente della Commissione Prodi, insultava il kapò Schulz per attirare consensi in patria. Gli effetti sono stati deteriori.
I tedeschi, che allora parlavano a mala pena francese, hanno gradualmente coperto tutti i posti chiave a cui ambivano. La politica federale ha fatto squadra e ha affollato il ponte di comando. L’Italia ha perso posti e chi li ha ottenuti lo ha fatto per meriti propri più che con la spinta di Roma. Si è fatto molto per diffondere l’idea secondo cui gli eurodeputati sono figure di serie B, interpreti di una parte da fine carriera o giovani chiamati a farsi le ossa (con dovute eccezioni). Abbiamo perso i duelli importanti, salvo eroismi singoli. Mancò la visione, non il coraggio.
Il futuro impone un cambiamento di strategia. Pro o contro, sinché esisterà l’Europa bisogna avere almeno il buon senso di provare a essere nelle giuste stanze, per influenzare l’Unione con la presenza, che si creda nel progetto o si sogni di emulare la Brexit.
Così le scelte sono due. Ripensare la strategia della funzione pubblica italiana in Europa, mossa logica che, purtroppo, richiederà anni per dare i frutti desiderati, a patto che si sappia guardare lontana e stringere le opportune alleanze. Immaginare subito il candidato giusto, rispettato e abile, magari bipartisan, da mettere sul tavolo a Strasburgo per avere la presidenza del Parlamento nel luglio 2019, quindi creare consenso interno e esterno per portarlo all’affermazione. Ogni altra mossa avrà esito diverso, catapulterà verso altri smacchi. I leader globali hanno una visione e rifiutano inutili soluzioni di breve termine. Gli altri si lamentano e minacciano veti.