venerdì 25 novembre 2016

La Stampa 25.11.16
Lou Castel: “Siate ribelli lottate e trasgredite. Io ho vissuto sempre così”
Un film celebra l’attore oggi premiato a Torino
di Fulvia Caprara

Una vita da ribelle. Intrecciata con una carriera dall’incipit folgorante, con Marco Bellocchio nei Pugni in tasca, e poi volutamente sacrificata sull’altare dell’ideologia. A Roma, davanti allo scheletro del gasometro oppure lungo le rive del Tevere, tra «archeologia post-industriale e relitti pasoliniani», Lou Castel, nato a Bogotà nel ’43, da padre svedese e madre inglese, si racconta nel documentario di Pierpaolo De Sanctis A pugni chiusi (ieri al Tff), con ammirevole sincerità. Senza rimpianti, ma, anzi, con la capacità di ammettere: «Ho vissuto le conseguenze delle mie scelte private, non ho mai pensato a costruire una carriera nel modo tradizionale, prendendo un agente, facendo scelte lineari, investendo i soldi nel modo giusto. Fin dall’inizio questa prospettiva mi faceva paura, l’ho evitata».
E dire che i primi passi furono impeccabili: «Sono stato ammesso al corso di regia del Centro Sperimentale, ero al quarto posto, poi è arrivato Bellocchio, ho lasciato perdere». Di quel set Castel ricorda il clima: «Ridevamo sempre, eravamo molto allegri, certe volte Bellocchio se ne andava, si nascondeva e mi lasciava da solo davanti alla macchina da presa». Però fu proprio quell’esperienza a causare la prima frattura: «Ero in una situazione schizofrenica, da una parte il successo, dall’altra il ritorno alla vita quotidiana».
La bussola, per Castel, furono gli ideali politici, uniti alla voglia di lotta e trasgressione: «Una volta mi sono buttato nella fontana di Piazza Navona e ho cominciato a nuotare, faceva molto caldo...». Le proposte di lavoro fioccavano, dopo Bellocchio lo volevano tutti, ma lui aveva altro per la testa: «Una volta, a Roma, mi misi a saltare da un balcone all’altro, non avevo calcolato bene la distanza, quasi mi spaccavo la testa. Invidio gli attori italiani che hanno potuto vivere le loro esistenze borghesi».
Iscritto alla formazione di estrema sinistra «Servire il popolo», precipitato per sua volontà nel gorgo del cinema di serie b, interprete spesso di titoli porno-soft («Sono stato un po’ un maniaco sessuale, adesso posso dire che non riesco più ad avere rapporti, questo ridimensiona tutto e fa capire certe cose che sostenevano le femministe sulla penetrazione»), deciso a tagliare i ponti con i maestri («Sparavo a zero sui registi di sinistra come Scola e Antonioni, ma la mia non era una critica culturale»), Lou Castel torna a lavorare con Marco Bellocchio negli Occhi, la bocca. Ma non sono rose e fiori: «Avevo dimenticato come si faceva a recitare, girai una scena, pensavo di essere andato benissimo e invece Marco mi gridò che ero un cane. Allora mi sono incavolato, gli ho risposto “fallo te”. Poi mi sono concentrato, ho ricordato le regole del metodo Stanislavskij ed è andata bene».
La lotta, per Castel, è sempre stata continua: «Ho cercato di non farmi annullare, volevo esistere». E adesso, con i capelli bianchi, qualche chilo in più, il cappottone informe , esibisce a buon diritto il distintivo della coerenza: «I registi mi incontrano e mi dicono che sono in forma, ma io adesso sono un altro Lou Castel».