venerdì 25 novembre 2016

il manifesto 25.11.16
Lungo il Tigri, l’incanto perduto dei leoni alati
Nimrud, l’antica città assira ostaggio dell’Isis dal 2014 è stata riconquistata dall’esercito iracheno. Il settore di rappresentanza del palazzo reale ha subito serie mutilazioni. Si attende un sopralluogo. Intervista con Daniele Morandi Bonacossi, docente di Archeologia del Vicino Oriente antico a Udine
di Valentina Porcheddu

«Le distruzioni avvenute a Palmira, Hatra, Ninive e Nimrud sono la faccia della stessa medaglia ovvero del fanatismo integralista di matrice salafita e di quell’Islam immaginario che porta a identificare le superbe manifestazioni delle civiltà del passato pre-islamico – non soltanto dell’antichità pre-classica o classica ma anche del mondo islamico sciita e persino sunnita quando si tratta di mausolei o tombe – con gli «idoli» dell’era della jahiliyah ossia della non conoscenza della parola di dio. La devastazione del patrimonio iracheno mira a cancellare l’identità delle minoranze che vivono in quel grande mosaico etno-culturale che è il nord del paese e che in quei monumenti si riconoscono».
A condividere questa riflessione con Il Manifesto è Daniele Morandi Bonacossi, docente di Archeologia del Vicino Oriente antico all’Università di Udine e direttore del Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive. Lo abbiamo contattato per parlare dell’attuale situazione di Nimrud, l’antica città assira lungo il Tigri, ostaggio dell’Isis dal giugno 2014 e ora ufficialmente riconquistata dall’esercito iracheno. Di ritorno da una campagna di ricerca nel Kurdistan iracheno, dove la Missione archeologica udinese studia e censisce l’immenso patrimonio dell’Iraq in una regione ubicata a ridosso del fronte fra Peshmerga curdi e Isis – e quindi nei mesi scorsi fortemente minacciata dalle distruzioni iconoclaste del Califfato – Morandi Bonacossi sottolinea l’importante compito svolto dagli archeologi italiani nelle aree di crisi. Grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, infatti, gli archeologi italiani attivi in Iraq sono attualmente impegnati nella documentazione, protezione e restauro dei siti e monumenti che custodiscono l’identità culturale del paese.
Un ruolo non solo culturale, dunque, ma anche «politico», che consente loro di mantenere strettissimi rapporti con le autorità locali preposte alla tutela dei beni culturali iracheni, di contribuire in maniera incisiva all’analisi delle gravi problematiche che interessano rilevanti siti archeologici, monumenti architettonici e musei dell’Iraq e di essere osservatori e testimoni della difficile attualità politica e sociale del paese.
A più di un anno dallo sconcertante video con cui lo Stato Islamico ha celebrato in rete la distruzione del palazzo del sovrano assiro Assurnasirpal II (IX sec. a.C.) a Nimrud e dei solenni rilievi conservati al suo interno, i media hanno diffuso le immagini del sito archeologico liberato. In base a queste foto, quali osservazioni possono farsi?
In attesa di un sopralluogo, qualsiasi affermazione resta speculativa sebbene sia certo che il settore di rappresentanza del palazzo reale – abbattuto coi bulldozer e fatto letteralmente a pezzi per mezzo di seghe elettriche ed esplosivo – abbia subito gravissime mutilazioni. A tale distruzione, nel giugno del 2016, si è aggiunta quella del maestoso tempio del dio Nabu che si stagliava nel versante meridionale dell’acropoli. L’ultimo atto di violenza iconoclasta è stata la demolizione della ziqqurat dedicata a Ninurta, divinità protettrice del sovrano.
C’è il rischio che i rilievi che magnificavano la figura di Assurnasirpal II siano entrati nel mercato clandestino?
Il fatto che alcuni di essi siano stati ridotti in frammenti di piccole dimensioni, facilmente asportabili e trasportabili, desta sospetto, ma finora non abbiamo traccia di un commercio legato a questi reperti, che sarebbero immediatamente individuabili. Non escludo però la possibilità che riemergano tra una decina d’anni. I trafficanti d’arte antica sanno attendere.
Cos’è successo invece a Khorsabad, l’antica Dur-Sharrukin fondata nell’VIII secolo a.C. dal re Sargon II e già fortemente colpita dall’Isis nel marzo del 2015?
Khorsabad, a circa quindici chilometri a nord-est di Mosul, si trova sul confine che separa i territori controllati dai Peshmerga dal Califfato. Le foto satellitari rivelano le imboccature di tunnel scavati nel sito per depredarlo. Quando poi, qualche settimana fa, Khorsabad è stata riconquistata dai militari curdi, questi hanno installato una postazione fortificata sull’acropoli, procurando danni alle strutture superstiti del palazzo di Sargon II e favorendo la scoperta di alcuni frammenti scultorei, già recuperati dalla Direzione delle Antichità del Kurdistan iracheno. Si tratta dunque di effetti collaterali della guerra e non di distruzioni intenzionali.
Qual è il suo pensiero riguardo la «corsa alla ricostruzione» che si sta prospettando – con mostre e proclami – soprattuto per Palmira?
Il dilemma oscilla tra due diverse visioni, una scientifica e l’altra scientifico-politica. Cesare Brandi, padre della moderna teoria del restauro, ci ha insegnato che la ricostruzione di un edifico distrutto è una falsificazione storica. Se programmassimo di «riassemblare» il tempio di Bêl a Palmira utilizzando i blocchi di pietra ancora in situ con l’aggiunta di materiali non antichi, ne verrebbe fuori un nuovo monumento, molto simile a quello originario ma innegabilmente falso. Tanto più che non mi risulta siano stati effettuati in precedenza rilievi accurati tramite laser scanner e fotogrammetria digitale. Si potrebbe poi dire che in quanto testimonianza della storia di un edificio, la sua distruzione non dovrebbe essere cancellata. Tuttavia, dobbiamo chiederci se davanti a distruzioni ideologiche e di proporzioni apocalittiche come quelle praticate dallo Stato Islamico in Iraq e Siria, sia giusto consentire che l’archeologia si trinceri dietro al comodo paravento del restauro scientifico o se, invece non sia il caso di considerare legittimo e persino doveroso ricostruire i monumenti com’erano e dov’erano. Questo servirebbe a ribadire che alle azioni di eradicazione del patrimonio culturale portate avanti dall’Isis si contrapporrà sempre un atto di carattere morale.
Che destino intravvede per i siti iracheni distrutti?
Non ho doti profetiche ma mi piacerebbe che l’Italia continuasse a partecipare alla ricostruzione del tessuto culturale iracheno. L’Università di Torino ha avuto un ruolo nella rinascita del museo archeologico di Baghdad e ha riaperto nella stessa città l’Istituto archeologico, creando anche un centro di restauro. L’Italia, inoltre, può vantare numerose missioni archeologiche sia nel nord che nel sud del paese, tutte sostenute con grande entusiasmo dal nostro Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dalla nostra Ambasciata a Baghdad e dal Consolato a Erbil. L’auspicio è che vengano presto convogliate risorse su Nimrud – dove Paolo Fiorina ha scavato tra il 1987 e il 1989 – e Khorsabad, e che ciò che resta di queste due famose residenze reali assire possa esser tutelato e valorizzato, soprattutto a beneficio delle comunità locali.