Dubbi del Colle sull’opzione voto anticipato
di Ugo Magri
Chi
ha parlato ultimamente con il premier, prima e dopo il colloquio di
ieri al Quirinale, esclude che possa restare al suo posto in caso di
sconfitta, perfino se fosse solo per una manciata di voti. Renzi ne
farebbe legittimamente una questione di orgoglio e di integrità della
propria immagine, dunque le sue dimissioni sarebbero inevitabili, idem
l’apertura formale di una crisi al buio. Che, come tutte le crisi di
governo, avrebbe l’effetto di rendere protagonista il Capo dello Stato
nel suo ruolo di arbitro.
Per Sergio
Mattarella si tratterebbe della prima vera prova da quando è stato
eletto, il 31 gennaio 2015. In questi quasi due anni, il Presidente ha
mostrato una forte vocazione all’ascolto del cosiddetto «Paese reale»,
limitando al minimo indispensabile le incursioni sul terreno della
politica, e pure in quei rari casi è intervenuto con lo scrupolo
evidentissimo di restare «super partes». Sono in molti dunque a
chiedersi come si regolerebbe in quel caso il Garante.
Altrettanto numerosi quelli che non vorrebbero mai ritrovarsi nei suoi panni in un passaggio così delicato e indecifrabile.
In
realtà, c’è poco da interrogarsi su cosa farebbe Mattarella. Nel caso
in cui davvero Renzi si presentasse per dare le dimissioni, e non ci
fosse modo di fargli cambiare idea, il Presidente si atterrebbe con
molto scrupolo alla prassi costituzionale, da cui derivano comportamenti
precisi, praticamente dei binari. Si farebbe un dibattito in
Parlamento, verrebbero fissate le classiche consultazioni per
individuare il successore del premier. Mattarella chiederebbe
indicazioni a tutti, opposizione compresa. Ma sempre tenendo a mente che
nel sistema attuale il Capo dello Stato non ha la bacchetta magica, gli
mancano i super-poteri, e il pallino del gioco resta comunque in mano
alla maggioranza. Dunque la prima verifica che effettuerà Mattarella, in
caso di vittoria del No, sarà appunto: esiste ancora una maggioranza?
La
presa d’atto sembra fin d’ora abbastanza scontata: una coalizione tra
centristi e Pd esisterà anche dopo. Politicamente ammaccata dal
referendum, certo, ma numericamente tale tanto alla Camera (grazie al
famoso premio) quanto al Senato (per effetto delle scissioni nel
centrodestra). Una volta accertato che così stanno le cose, Mattarella
avrà l’obbligo di cercare una soluzione nell’ambito della maggioranza
attuale. E lo farà, si può scommettere, con la dovuta pazienza, ma pure
con la serenità di chi è convinto che non sono possibili soluzioni
alternative. Di sicuro, non favorirà la scorciatoia delle elezioni
anticipate, per due ragioni.
Anzitutto non è
ben chiaro con quale sistema si andrebbe alle urne. Sull’«Italicum»
pende il giudizio della Corte Costituzionale, che si pronuncerà a
febbraio. E chi conosce gli umori della Consulta sostiene che già a
settembre, se non ci fosse stato il rinvio, la legge elettorale sarebbe
stata sicuramente bocciata. Insomma, per il sistema elettorale non tira
una buona aria, e sarebbe da pazzi irresponsabili andare al voto con
questa spada di Damocle. Inoltre, fanno notare autorevoli frequentatori
del Colle, Mattarella potrebbe sciogliere il Parlamento e convocare
nuove elezioni solo nel caso in cui Renzi e il Pd dichiarassero di non
voler concorrere a nessun nuovo governo. Cioè si prendessero davanti
all’Italia, e nelle dovute forme, la responsabilità di premere il tasto
dell’auto-dissoluzione. Che si arrivi a questo punto, sono in pochi a
crederlo. Tra i consiglieri del Presidente, quasi nessuno.