La Stampa 20.11.16
Dalle trincee la genesi del Kurdistan
di Maurizio Molinari
Sui
campi di battaglia del Medio Oriente i combattenti peshmerga si stanno
guadagnando il diritto di far nascere una nuova entità, il Kurdistan.
Poiché si tratta di una regione in guerra, sono le cronache militari a
descrivere quanto sta avvenendo. Sono stati i combattenti curdi
siriano-iracheni a infliggere a Kobane, nel gennaio del 2015, la prima
severa sconfitta di terra allo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr
al-Baghdadi. Sono state le unità curde espressione del governo regionale
di Erbil a fronteggiare per oltre 18 mesi l’espansione di Isis nel Nord
dell’Iraq ed ora sono gli stessi reparti a presidiare le posizioni più
avanzate dell’attacco a Mosul, culla del Califfato jihadista.
Nella
Siria dell’Est lo scenario li vede ancora protagonisti: sono i curdi
del Rojava ad aver annunciato l’inizio delle operazioni per
riconquistare Raqqa, capitale dei jihadisti. Sebbene le battaglie per
Mosul e Raqqa siano solamente all’inizio, il fatto che in entrambi i
casi in prima linea vi siano i curdi testimonia la migliore struttura
militare - e la più solida organizzazione sociale - di un popolo che
aspira all’indipendenza dal 1920, quando a promettergliela nel Trattato
di Sèvres furono le potenze alleate vincitrici della Prima Guerra
Mondiale contro l’Impero Ottomano.
Più volte tradito, beffato e
diviso, vittima di stragi e pulizie etniche, il popolo curdo non ha mai
perduto l’aspirazione all’indipendenza. Riuscendo a resistere alla
spietata dittatura di Saddam Hussein in Iraq come a conservare la
propria identità a dispetto di ogni sorta di avversità negli altri Paesi
dove è disseminato: Siria, Turchia ed Iran. Ma l’accelerazione della
Storia in atto in Medio Oriente rimescola i tasselli del mosaico
regionale: le potenze occidentali hanno bisogno dei curdi per battere
Isis, il regime siriano di Bashar Assad preferisce tollerare i curdi che
convivere con il Califfato, gli sciiti di Baghdad vedono nei curdi di
Erbil il possibile partner per trasformare l’Iraq in una confederazione
ed anche la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, spietata avversaria del
nazionalismo curdo dentro i propri confini, vede nel governo regionale
di Erbil non solo un interlocutore, ma un potenziale alleato a cui
consente - ogni giorno - di esportare milioni di barili di greggio
attraverso il proprio terminale di Ceyhan sul Mediterraneo.
L’ostacolo
più serio che i curdi hanno davanti restano le divisioni fra loro:
partiti, leader e milizie concorrenti nei territori limitrofi fra Iraq,
Siria, Turchia e Iran rallentano il cammino verso l’unificazione e,
dunque l’indipendenza. Ma le testimonianze che ci arrivano dal Rojava
siriano e dal Kurdistan iracheno grazie alle cronache di reporter come
il nostro Giordano Stabile ed a documentari come il «Peshmerga» del
filosofo francese Bernard-Henri Levy suggeriscono che un nuovo assetto
territoriale può nascere, dal basso, in Medio Oriente sulle rovine degli
accordi di Sykes-Picot risalenti a cento anni fa.
Poiché in Medio
Oriente gli Stati più stabili sono quelli composti in gran parte da
singole tribù sunnite (Kuwait, Qatar, Emirati) o con identità
etnico-nazionali granitiche (Israele e Iran), la creazione di una
nazione curda su alcuni dei territori strappati a Isis può diventare un
fattore di stabilità, generando nuovi equilibri. Tanto più che il
micro-Stato creato nel Kurdistan iracheno spicca per libertà economiche,
infrastrutture efficienti e rispetto dei diritti civili, a cominciare
da quelli delle donne. L’impressione è che il Kurdistan possa diventare
in tempi stretti uno dei primi test internazionali per il nuovo
presidente americano Donald J. Trump.