lunedì 14 novembre 2016

La Stampa 14.11.16
I rapporti Usa-Ue e il ruolo chiave della Germania
di Giovanni Sabbatucci

Comunque la si pensi sulle vere intenzioni e sui programmi di Donald Trump, è certo che l’approccio del neo-presidente alla politica internazionale non sarà senza conseguenze sulle relazioni degli Stati Uniti col resto del mondo: in primo luogo con l’Europa, che dovrà confrontarsi con i suoi molti problemi irrisolti senza poter contare sulla sponda tradizionalmente offerta dall’alleato d’oltreoceano. Un rischio, sicuramente, ma forse anche un’occasione da sfruttare.
Quel rapporto, stretto e obbligato, fra nuovo e vecchio continente fu inaugurato un secolo fa dall’intervento americano nella Grande Guerra: intervento che il presidente Wilson vedeva come premessa all’instaurazione di un nuovo e pacifico ordine internazionale. Un’utopia democratica che si contrapponeva esplicitamente al mito della rivoluzione rilanciato dalla Russia dei soviet, già prefigurando il confronto bipolare di parecchi anni dopo. Il sogno si infranse a guerra appena finita per il prevalere di un antico riflesso isolazionista nel Congresso Usa, che rifiutò di ratificare il trattato di Versailles. E la rinuncia degli Stati Uniti a un ruolo di responsabilità mondiale aprì in Europa un drammatico vuoto di egemonia, in cui trovarono spazio le vecchie logiche di potenza e si affermarono su scala continentale i movimenti e i regimi autoritari. Mentre la grande crisi degli Anni Trenta, non governata a livello internazionale e aggravata dal ritorno alle pratiche protezioniste, distruggeva la fiducia nella democrazia e cancellava le speranze di stabilità maturate dopo i travagli del primo dopoguerra.
Con l’intervento nella Seconda guerra mondiale e la sconfitta delle potenze fasciste, furono però gli Stati Uniti d’America a proporsi a un’Europa dissanguata non solo come alleati egemoni, ma anche come dispensatori di benessere e di democrazia. Furono gli Stati Uniti a spingere la ripresa dell’Europa attraverso il piano Marshall e ad aiutare la ricostruzione degli ex nemici sconfitti, Germania occidentale in testa. Furono loro a contenere, attraverso il dispositivo militare della Nato, l’avanzata dei comunismi e a incoraggiare i primi passi del progetto di integrazione europea: progetto che difficilmente si sarebbe avviato senza un robusto sostegno americano. Non a caso gli anni della guerra fredda coincisero con una fase di straordinaria espansione delle economie occidentali: «l’età dell’oro» dei miracoli economici, legati anche all’apertura delle frontiere e alla creazione di aree di libero scambio. Non sono mancati da allora i momenti di rottura e le incomprensioni fra Usa e partner europei. La Nato è stata vista spesso come uno strumento improprio di dominio politico. Dopo la caduta del muro, molti si sono chiesti se avesse ancora senso un’alleanza militare piegata su esigenze diverse da quelle originarie. Non credo però che si possa contestare l’evidenza storica di una correlazione diretta fra la salute politica ed economica dell’Europa e lo sviluppo della cooperazione inter-atlantica.
Ora il quadro è cambiato. Non potremo aspettarci, da ora in poi, che sia l’America a proteggerci dalle derive nazionaliste. Meglio allora ripensare il ruolo della Nato collegandola a un progetto di difesa comune. Meglio sforzarsi di chiarire quale Europa si voglia costruire e quali Paesi siano disponibili all’impresa, a prescindere dalle scelte dell’amministrazione Usa. Oggi il riferimento interno più sicuro per un’Europa che non rinneghi i suoi princìpi costitutivi non può essere che la Germania di Angela Merkel: proprio la Germania che negli Anni Trenta aveva portato una minaccia mortale alla democrazia e che oggi resiste alle ondate populiste meglio di qualsiasi altro paese dell’Unione; la Germania che nell’immediato dopoguerra, aveva rappresentato soprattutto un problema da risolvere e che oggi è l’unico membro dell’Ue a disporre dell’autorevolezza e delle risorse necessarie alla grande politica. Possiamo rilevare il paradosso, ma questa oggi è la realtà. Di fronte alla quale non avrebbe senso per i Paesi europei, compreso il nostro, dividersi su qualche decimale di Pil.