lunedì 14 novembre 2016

La Stampa 14.11.16
Tramonta il dogma austerità
di Stefano Lepri

La vittoria di Donald Trump pone fine alla dottrina che l’austerità fa bene. Ma se davvero avremo negli Usa forti sgravi fiscali e più spesa pubblica per investimenti, quali possano essere gli effetti sull’Europa e sul mondo nessuno può prevederlo.
Una spinta alla crescita anche per noi, oppure tassi di interesse più alti e instabilità finanziaria? O anche, prima l’una e poi l’altra?
Disponiamo, per scrutare nel futuro, solo di ipotesi ispirate da ideologie contrapposte. Sempre che il nuovo Presidente lasci cadere le parti più distruttive del suo programma, come le tariffe sull’import, giorno per giorno dovremo misurare quanto l’aumento del deficit pubblico americano spingerà al rialzo i tassi di interesse del pianeta, contro ad una tendenza che da vent’anni e più li vede calare.
La scelta di spendere di più per «strade, ponti, gallerie, aeroporti, scuole, ospedali», se mantenuta, imporrà una giravolta alla maggioranza repubblicana del parlamento statunitense (sarà divertente ascoltarne le acrobazie retoriche). Fino a ieri, quando le stesse spese le chiedeva Barack Obama, ribattevano che lo Stato quasi sempre spreca e che il debito pubblico è pericoloso.
Conforme alla tradizione della destra americana sarà invece la riduzione delle imposte sui redditi specie dei più ricchi, e sui redditi delle società. Di questo tipo di misure l’economia Usa oggi ha scarso bisogno, perché i profitti delle aziende sono già elevati e stentano invece a tradursi in investimenti. Il costo per lo Stato sarà alto, l’effetto espansivo probabilmente modesto.
Sarà comunque una svolta per il mondo. Oltre sei anni fa, al G-20 di Toronto, si era deciso di chiudere con le misure anticrisi a carico degli Stati per prevenire ulteriori aumenti dei debiti pubblici; si sperava che le forze dell’iniziativa privata riportassero verso una crescita vigorosa. Non è stato così, nemmeno con l’aiuto dell’espansione monetaria offerta dalle banche centrali.
Non è chiaro tuttavia quale ulteriore spinta si possa imprimere all’economia americana, già in crescita attorno al 2%, con disoccupati sotto il 5%. Che si possa raddoppiarne il tasso di espansione, come Trump promette, nessuno studioso serio lo crede. La divergenza è tra chi crede che si possa fare poco o nulla e chi ritiene che margini di miglioramento esistano.
A giudizio dei primi, risalita dei prezzi e dei tassi di interesse saranno rapidi; l’Europa potrebbe risentire presto di queste ricadute negative senza aver avuto tempo di beneficiare dell’impulso positivo. A giudizio dei secondi, la risalita dell’inflazione sarà più lenta e forze di fondo frenano i tassi di interesse; l’Europa anzi farebbe bene ad adottare anch’essa misure di tipo espansivo.
Di fronte al grande interrogativo sulle politiche della nuova Casa Bianca l’area euro appare stretta in un paradosso. Proprio la Germania, da cui Angela Merkel esalta i valori di libertà dell’Occidente di fronte a Trump che sembra non comprenderli, nega che esistano strumenti di pronta efficacia per creare lavoro e accelerare la ripresa. O cambierà qualcosa?