domenica 13 novembre 2016

La Stampa 13.11.16
La protesta sfila nel cuore  di New York: cambieremo il Paese
In migliaia hanno manifestato pacificamente a Manhattan  fino alla Trump Tower contro le discriminazioni e al grido “not my president”
di Paolo Mastrolilli

Il piano è semplice», spiega Sewarge, col volto nascosto sotto la maschera nera degli anarchici: «Boicottare l’America, e far fallire Trump». Mezzogiorno è passato da poco, quando Union Square si affolla di persone, cartelli e slogan.
L’artista Levee ha creato un muro del pianto alla fermata della metropolitana, dove tutti sono invitati ad appiccicare messaggi di protesta. Nella piazza c’è ancora il mercato biologico, dove trovi cavolfiori o mele organiche, e il fantasma di Abbie Hoffman, che negli Anni Sessanta aveva inventato la «controcultura» da queste parti. Adesso si replica, contro Trump. Con una marcia lungo la Fifth Avenue per arrivare sotto la sua torre, dove il presidente eletto sta costruendo la nuova amministrazione. Una delle 37 proteste avvenute in altrettante città, con qualche violenza. Lui ha prima attaccato via Twitter i «manifestanti professionisti», che vogliono mettere in discussione il risultato legittimo delle elezioni, ma poi ha elogiato «la loro passione», perché andare contro il Primo emendamento della Costituzione sulla libertà di espressione non è un bel modo di cominciare la presidenza.
Robert Thom, 26 anni, è un militante del gruppo Socialist Alternative che ha organizzato la marcia: «Siamo qui per far sentire la nostra voce, e cominciare un movimento per contrastare Trump». Ma la sua elezione è stata legale? «Sì». E allora cosa sperate di ottenere? «Il fatto che sia stata legale dimostra proprio quanto sia corrotto il nostro sistema politico. Dobbiamo cambiarlo, e possiamo riuscirci, se formiamo un movimento nazionale di resistenza civile». Ma tu se andato a votare martedì? «Sì». E posso chiedere per chi? «Jill Stein». Ma lo sai che se tutti quelli come te avessero votato per Clinton, oggi non ci sarebbe un presidente Trump contro cui protestare? «Io rifiuto questo argomento. Allora potrei risponderti che se Sanders fosse stato il candidato democratico, noi avremmo vinto. Niente, ora c’è Trump, e dobbiamo fermarlo».
Poco distante Emily Rems, direttrice del magazine femminista «Bust», sventola una bandiera con su scritto «Don’t grab my pussy», un riferimento all’audio in cui Donald aveva detto che il suo status di star televisiva gli consentiva di prendere le donne come voleva: «Sono qui per difendere i diritti delle donne. Non contesto la legalità della sua elezione, ma devo difendermi». Con lei c’è Logan Delfuego, artista, che affonda il colpo: «Non sono un accademico, ma vedo molte somiglianze con Mussolini. Piccoli pezzi di m... insicuri, che per darsi un tono devono atteggiarsi a fare i duri, possibilmente appoggiandosi ad altri amici che sono duri davvero: Hitler nel caso di Mussolini, Putin in quello di Trump». Alle spalle di Logan, infatti, c’è un cartello che dipinge il nuovo presidente americano come un poppante con la bandiera rossa in mano, alzato verso il cielo dal capo del Cremlino in divisa militare. Ma se l’elezione di Trump è legale, cosa sperate di cambiare con questa marcia? «Hai presente - risponde Logan - gli Anni Sessanta? C’era la guerra in Vietnam, Nixon alla Casa Bianca, e tutto sembrava immutabile. Eppure le proteste, la controcultura, poco alla volta scardinarono il sistema. Il Presidente fu costretto dal fronte interno a terminare la guerra, e poi crollò con il Watergate. Ecco, è quello che sta cominciando qui, contro Trump». Ma tu martedì sei andato a votare? «No, perché tanto non serve a niente».
Quando il corteo comincia a muoversi, mi trovo al fianco di un ragazzo di nome Ethan, che ha appena ricevuto un volantino dal socialista Thom. Mi strizza l’occhio e dice: «Questi sono scemi. Ancora col socialismo? Ma dove pensano di andare? Si credono che l’America voglia questa roba?». Sorpreso, gli chiedo che è, e cosa ci fa in mezzo alla folla: «Io sono un elettore democratico che ha votato Hillary. Avevo deciso di farlo prima ancora che si candidasse, e quindi sono qui a manifestare il mio disprezzo per Trump. Questi però sono scemi, e con loro non vinceremo mai».
Solidarietà e armonia, dunque, regnano sovrane. L’anarchico Sewarge mi spiega perché pensa che boicottare le aziende americane sia la soluzione a tutti i problemi: «In questo Paese c’è ancora lo schiavismo. Dobbiamo abbatterlo inceppando il sistema».
La marcia risale la Fifth Avenue, davanti alle vetrine di Saks, già addobbate per il Natale opulento di New York. Jonathan mostra un cartello con su scritto «Jews Reject Trump», gli ebrei rifiutano Trump, e dice: «Sono contro la sua filosofia, la sua ideologia, la sua politica, le sue proposte, e il modo in cui ha diviso l’America. Accetto la sua elezione, ma farò tutto il possibile per ostacolarlo». Karen, vicino a lui, lo corregge: «No, no, io non accetto la sua elezione. È un bigotto autoritario e non possiamo lasciargli guidare il Paese».
Quando arriviamo davanti alla Trump Tower, sulla 56esima Strada, la polizia ci ferma dietro una barricata. Il regista Michael Moore riesce ad arrivare all’ingresso, per lasciare un biglietto al portiere: «Vorrei vederlo, quando ha tempo». Donald risponde via Twitter: «Siamo uniti, vinceremo, vinceremo». Logan si fa una risata: «Sì, domani. Non ha capito che questa roba durerà fino a quando sarà alla Casa Bianca. Il Sessantotto è tornato».