sabato 12 novembre 2016

La Stampa 12.11.16
il laboratorio della nuova destra
di Giovanni Orsina

Quasi 40 anni dopo le prime elezioni di Thatcher e Reagan, la Brexit e l’ascesa di Trump alla Casa Bianca rimettono il mondo anglosassone all’avanguardia dei processi di trasformazione della destra politica occidentale.
Semplificando molto, anche nel mettere insieme due Paesi assai diversi, è possibile sostenere che il processo di modernizzazione della destra reso palese dalle elezioni del 1979 nel Regno Unito e del 1980 negli Usa abbia rappresentato una risposta alle «rivoluzioni individualistiche» degli Anni Settanta e al conseguente, definitivo tramonto degli assetti sociali e culturali «tradizionali». La destra anglosassone degli Anni Ottanta per un verso reagì agli eventi del decennio precedente. Ma per un altro ne accolse la spinta individualistica, deviandola sul mercato. Mercato, inoltre, che non intendeva chiudere nei confini nazionali, ma aprire sempre di più a una dimensione internazionale.
Almeno sul terreno economico, perciò, quella nuova destra aveva tra i suoi caratteri fondanti l’individualismo e l’internazionalismo. Per inciso, fu proprio a questi caratteri che si ispirò esplicitamente Berlusconi nel 1994 con la sua rivoluzione liberale. Sempre semplificando, è possibile sostenere inoltre che dagli Anni Settanta in poi l’individualismo e l’internazionalismo abbiano caratterizzato non soltanto le destre, ma pure le sinistre occidentali. Anche se, in questo caso, l’enfasi cadeva più sui diritti che sul mercato.
Stritolata per tre decenni fra i due individualismi e i due internazionalismi, di destra e di sinistra, la politica – che è un’impresa collettiva, e finora è rimasta ancorata allo stato nazionale – è andata in pezzi. Così che, nel momento in cui l’Occidente dell’individualismo e dell’internazionalismo è entrato in crisi, destra e sinistra non hanno saputo far altro che proporre, come soluzione, ancora più internazionalismo e ancor più individualismo. Gli elettori, bisogna ammetterlo, per un po’ hanno pazientato. Col prolungarsi della crisi, però, l’area elettorale che né la destra né la sinistra riuscivano a coprire – quella di chi per interesse, timore, o scelta ideologica chiedeva una «frenata politica» sulla via dell’individualismo e dell’internazionalismo – è venuta crescendo sempre di più. A tal punto che è riuscita infine ad attrarre su di sé e fagocitare sia i conservatori inglesi sia i repubblicani americani. Generando un terremoto politico paragonabile a quello del 1979-80.
Due corollari di questo ragionamento, in conclusione. Affrontare i voti per la Brexit e per Trump da un punto di vista storico, come ho cercato di fare qui, aiuta a evitare un errore concettuale madornale: ritenere che questi fenomeni siano soltanto il frutto di scelte irrazionali, «di pancia», o ispirate da sentimenti spregevoli («deplorable», copyright Hillary Clinton). Il che non vuol dire, naturalmente, che l’irrazionalità e la spregevolezza non abbiano avuto alcun peso, né che la via neo-nazionalista verso la quale puntano per ora sia la Brexit sia Trump sia scevra di pericoli, o migliore di quella che abbiamo seguito finora.
Il secondo corollario ha a che fare con l’Europa continentale e con l’Italia. Si può dubitare che un neo-nazionalismo come quello delineato da Trump in campagna elettorale giovi agli Stati Uniti, e ancor di più che giovi a noi europei. È ben più difficile, però, dubitare che gli Usa abbiano la forza – politica, economica e militare – per perseguirlo. Che ne abbia la forza il Regno Unito è già molto, ma molto meno certo. Non avrei invece alcun dubbio sul fatto che quella forza non l’abbiano gli Stati dell’Europa continentale, e tanto meno l’Italia. Come ha dovuto imparare a sue spese Berlusconi, importare la destra anglosassone nella Penisola non è cosa semplice.