Corriere 12.11.16
Se l’Europa perde l’alleato
di Angelo Panebianco
Alle
congratulazioni di rito a Donald Trump per la sua vittoria, il
presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha unito una nota di timore
per il futuro delle relazioni transatlantiche. Tusk, un figlio di
quella Polonia che non è mai stata risparmiata (fino a poco meno di
trent’anni fa) da nessuna delle tragedie che si sono abbattute per
secoli sull’Europa, non parla a vanvera, senza cognizione di causa. Se
Trump mantenesse anche solo il 20 per cento di ciò che, durante la
campagna elettorale, ha promesso di fare in politica estera, un grande
vuoto di potere si aprirebbe in Europa. Questo tuttavia non giustifica
il duro attacco «a freddo» di Jean-Claude Juncker, presidente della
Commissione europea, a Trump, una dichiarazione di ostilità che, di
sicuro, non aiuterà rapporti che si preannunciano comunque difficili.
Qualcuno
lo ha paragonato a Ronald Reagan (l’America conservatrice, eccetera,
eccetera). Niente di più sbagliato. Donald Trump è l’opposto di Ronald
Reagan e anche se annacquerà — come sicuramente dovrà fare — i suoi
propositi, molto difficilmente gli storici del futuro potranno trovare
consonanze fra la sua Amministrazione e quella che fu dell’ex attore ed
ex governatore della California: colui che ricostituì la potenza
dell’America dopo il Vietnam e il Watergate, che mise con le spalle al
muro l’Unione Sovietica favorendo così indirettamente l’ascesa di
Michail Gorbaciov e del suo gruppo, che restituì ottimismo e fiducia in
se stesso e nei propri principi liberali non solo al suo Paese ma al
mondo occidentale nel suo insieme.
T rump è un’altra cosa: esprime
il desiderio di tornare a quella tradizione isolazionista che prevalse
nell’America fra le due guerre mondiali, la volontà di porre termine
alla «grande anomalia» che è stata, rispetto alla storia americana
passata, la partecipazione permanente agli affari mondiali dopo il 1945,
l’esercizio di un’egemonia internazionale fondata sui due pilastri
delle alleanze militari (la Nato per prima e, con essa, il cruciale
rapporto politico-militare con l’Europa) e del libero scambio. Già con
Obama, all’inizio del suo primo mandato, nel mezzo della più grave crisi
economica del dopoguerra, e dopo gli interventi in Afghanistan e in
Iraq, una certa vocazione isolazionista, e una volontà di allentare i
tradizionali, speciali rapporti con l’Europa, si erano manifestate. Ma
nulla di paragonabile a quanto Trump ha promesso di fare.
Egemonia
politico-militare e un ruolo di traino in quella crescente
interdipendenza economica che è stata detta globalizzazione (una
globalizzazione che parla tuttora inglese con un forte accento
americano), sono le cose contro cui Trump si è scagliato in nome del
loro opposto: un neo-nazionalismo (l’antitesi dell’internazionalismo)
che si alimenta di isolazionismo politico e di protezionismo economico.
Trump dovrà poi fare i conti — anche lui, come tutti — con il principio
di realtà, con i vincoli che la politica internazionale impone. Ma ciò
non toglie che la via che ha indicato agli americani e al resto del
mondo sia chiara e che probabilmente verrà percorsa, almeno in parte.
Si
dice che il capo della Russia, Putin, non sia poi così contento di
dover trattare con un personaggio imprevedibile come Trump.
Probabilmente è così, Ma è anche vero che l’elezione di Trump gli apre
davanti vaste praterie. In Europa e in Medio Oriente.
L’obiettivo
allontanamento delle due coste dell’Atlantico determinato dalla elezione
di Trump, la sua disponibilità a rimettere in discussione persino la
Nato, la sua volontà di trovare comunque una nuova intesa con la Russia,
hanno anche l’effetto (come si vede dalle dichiarazioni entusiaste dei
leader dei vari partiti estremisti) di galvanizzare i tanti amici
europei di Putin, quelli che sognano di sostituire un giorno la Russia
all’America nella funzione di Lord protettore dell’Europa. Sì, Tusk dice
il vero: qualche ragione per essere preoccupati per le future relazioni
transatlantiche c’è, eccome.
Si può anche pensare che nel mondo
multipolare di oggi, ove l’America deve fare i conti con altre grandi
potenze, era inevitabile che, prima o poi, arrivasse un Trump, una sorta
di aggiustamento americano alla nuova distribuzione della potenza
internazionale, una realistica e definitiva rinuncia all’egemonia, la
sostituzione del nazionalismo all’internazionalismo del passato:
quell’internazionalismo che l’America poteva permettersi quando era
molto più forte di oggi. Ma si tratta di un argomento convincente solo
per chi crede che il futuro sia già scritto, che il declino
internazionale dell’America sia improcrastinabile.
È corretto
mettere insieme Brexit e l’elezione di Trump. La loro combinazione è il
segno che una trama antica di relazioni internazionali si va rapidamente
disfacendo: crisi (in atto) dell’Europa, crisi (potenziale) dei
rapporti transatlantici. Checché ne dicano i nemici, vecchi e nuovi,
dell’«impero americano» è precisamente quella antica trama di rapporti
che ha garantito la pace in Europa dal 1945 ad oggi. Sentire i vari capi
dell’estremismo europeo esaltarsi per Trump nella speranza che il suo
neo-nazionalismo faccia da traino al loro (in Francia, in Olanda, in
Italia e ovunque in Europa) dovrebbe far riflettere. Soprattutto perché
quei capi si rivolgono a una massa di persone che, a differenza del
polacco Tusk, pensa che non ci sia nessuna incompatibilità fra
protezionismo economico e prosperità, fra isolazionismo politico e
stabilità democratica, fra conservazione delle nostre tradizionali
libertà e una accresciuta influenza politica della Russia, con la sua
antica tradizione autoritaria, sul Vecchio Continente, fra la fine
«dell’impero americano» e la pace in Europa. È difficile far comprendere
a chi vuole continuare a sognare ad occhi aperti che le suddette cose
non sono fra loro compatibili. Ed ecco perché vale anche la pena di
sperare, dal punto di vista di noi europei, che Trump non rispetti
proprio tutte le promesse fatte.