La Stampa 11.11.16
Romano Prodi
“Siamo noi europei i cattivi maestri del populismo”
«L’Ue deve fare di più per la difesa comune»
Prodi: protezionismo e muri non vengono dagli Stati Uniti Il referendum in Italia e le elezioni in Austria sono piccole cose
intervista di Fabio Martini
Romano
Prodi ride di gusto: «L’altra sera mentre ascoltavo il primo discorso
di Donald Trump sembrava di ascoltare un’altra persona. Ha avuto accenti
keynesiani, accennando ad investimenti in infrastrutture ed evitando
qualsiasi riferimento alla riduzione del Welfare State...».
Sempre
opportuno attendere la prova dei fatti, ma pare difficile che Trump non
dia soddisfazione - tanto o almeno un po’ - a chi lo ha eletto, la
“tribù dei bianchi” impauriti...
«Io dico: prima vediamo quali
saranno le sue prime mosse concrete. Trump si è molto esposto in
campagna elettorale, ma appare difficile possa realizzare in toto le
promesse più dure e più assurde, come quella di far pagare ai messicani
un eventuale muro al confine con gli Stati Uniti. Ma al tempo stesso
Trump non potrà che essere “prigioniero” almeno in parte delle sue
promesse: sul ripensamento del Welfare, sul commercio internazionale,
sulla Corte Suprema...».
Quali sono le ricette che potrebbero propalarsi in Europa, in una sorta di “contagio populista”?
«Be’, tanto per cominciare diciamo che in fatto di populismo, i cattivi maestri siamo stati noi europei...».
In che senso?
«Nel
senso che diversi mesi fa, quando ho letto per la prima volta il
programma di Trump, ho pensato che l’avesse copiato dai populisti
nostrani. Nazionalismo, muri, anti-globalizzazione: al netto delle
americanate e di una ovvia contestualizzazione, il programma di Trump
era stato già scritto nel vecchio continente».
Il 4 dicembre si
vota per le presidenziali in Austria e per il referendum in Italia: sarà
un test per capire se il populismo tracima tra Alpi e Mediterraneo?
«Ma
che vuole, il grande evento oramai si è consumato. Le altre sono realtà
più piccole. Poi arriverà il 2017: Olanda, Francia, Germania...».
In Italia il populismo è arrivato prima: se ne andrà anche prima?
«Non è affatto detto. Anche in passato il populismo è arrivato prima in Italia che altrove, ma non ne è uscito prima...».
Il
populismo si tampona, lottando contro le diseguaglianze: l’Europa sarà
capace di cambiare “dottrina” prima delle elezioni tedesche del
settembre 2017?
«No. Io me lo auguro ma oramai i tedeschi hanno
una leadership assoluta in Europa, comandano su tutto e hanno congelato
tutto per i prossimi dieci mesi».
Trump interferirà sulle elezioni francesi?
«No.
Esiste un fair play che non sarà violato. Ma se a Parigi non si troverà
un accordo su Juppé, è possibile che il prossimo presidente francese si
chiami Le Pen».
Ma ora la nuova ondata di populismo all’ americana quali modelli potrebbe portare in Europa?
«In
linea teorica qualche riflesso potrebbe non essere negativo. Quando
Trump dice che gli europei dovranno contribuire più di prima a pagarsi
le spese militari della Nato, questa potrebbe essere l’occasione per
accelerare finalmente il progetto di un esercito europeo».
Ce la farà l’Europa?
«Purtroppo ne dubito molto».
Ci sono ricette che potrebbero trovare epigoni in Europa, come il taglio delle tasse ai più abbienti?
«Attenzione,
perché se realizza una promessa come questa, rischia di perdere il
sostegno di chi lo ha portato alla Casa Bianca: quel ceto medio ed
operaio impaurito dalla perdita del potere di acquisto e del lavoro. Se
taglia le tasse ai ricchi, dovrà pagare qualcun altro, a meno che Trump
non punti sull’aumento del debito pubblico, ma anche lungo questa strada
ci sono dei limiti».
L’abolizione della riforma sanitaria può trovare imitatori nelle nostre latitudini?
«Bisogna
essere sinceri: purtroppo un arretramento del Welfare è già in atto in
Europa e proprio per questo motivo non credo che Trump possa far scuola
sulla sanità pubblica, che oramai è entrata nella mentalità europea. I
tagli già fatti fanno paura e altri avrebbero l’effetto di angosciare la
popolazione. No, su questo non credo Trump non sarà un esempio».
Trump
ha vinto perché più convincente, ma anche a dispetto di tante
comprovate bugie: oramai la verità fattuale è meno importante di quella
emotiva?
«Il populismo è anche questo. Paradossalmente in società
più informate di un tempo, l’emotività e la personalizzazione vincono
sulla razionalità. Oramai si ragiona soltanto sulla fiducia o sfiducia
sulle persone. E d’altra parte se c’è un persona eccessivamente
razionale fino ad essere fredda, questa è la signora Clinton».
Dalla Russia alla Cina, alla Germania alla Francia, lei conosce personalmente quasi tutti i leader del mondo e per questo...
«...sì, ma non conosco Trump!».
La domanda è: cambierà qualcosa di strategico nei rapporti internazionali? Tramonterà l’era della globalizzazione?
«Sì,
Trump contribuirà ad accentuare il tramonto, che però è già in atto
della globalizzazione: l’epoca dei grandi accordi commerciali era già
finita e andiamo incontro ad accordi particolari, settoriali. Quanto ai
rapporti strategici, ci sarà un iniziale dialogo con la Russia, sul
quale Trump ha troppo insistito per smentirsi,ma bisognerà vedere se si
comporranno interessi contrastanti. Una cosa è certa: Ucraina e Siria
vivono e vivranno soltanto se c’è un accordo tra Russia e Stati Uniti».