Internazionale
19.10.2016
Yuval
Noah Harari
Storia
del futuro
Per
lo scrittore e studioso israeliano, nella Silicon
valley si stanno sviluppando
le
religioni di domani.
Ma
il progresso troppo rapido dell’automazione potrebbe avere
conseguenze terribili
di
Josh Glancy, The Sunday Times, Regno Unito
Viviamo
in una nuova epoca d’instabilità. Il ritmo della nostra vita, la
rapidità del cambiamento e l’arrivo di nuove tecnologie sono
sorprendenti per tutti e inquietanti per molti. Il potere è passato
dalle istituzioni tradizionali alle aziende della Silicon valley.
L’algoritmo di Google influenza l’attività imprenditoriale più
di qualsiasi strategia industriale elaborata dai governi. Secondo
alcuni siamo solo all’inizio, ci stiamo dirigendo incoscientemente
verso il momento in cui le macchine diventeranno più intelligenti di
noi. Solo alcuni grandi innovatori tecnologici hanno un’idea della
rotta che stiamo seguendo. Questa è la tesi di Yuval Noah Harari,
uno storico israeliano di quarant’anni, diventato ormai una sorta
di profeta quando si tratta di spiegare il passato e prevedere il
futuro. È un po’ come il profeta Giona che racconta la caduta di
Ninive o come Noè (omonimo dello storico) che mette in guardia i
suoi contemporanei sul prossimo diluvio. È l’indovino amato dalla
Silicon valley che non ha uno smartphone e non usa i social network.
L’uomo che trascorre mesi in silenziosa meditazione per poi
riemergere con un libro che spiega alla perfezione la condizione
degli esseri umani oggi. Il libro che ha fatto conoscere Harari in
tutto il mondo, Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità
(Bompiani 2015), è diventato un best seller internazionale nel 2014
dopo essere rimasto per tre anni in cima alla classifica di vendite
in Israele. Racconta in che modo un mediocre primate dell’Africa
orientale è riuscito a conquistare il mondo in poche decine di
millenni. Alla base del libro c’è la teoria secondo cui a rendere
grandi gli esseri umani è la loro capacità di raccontare storie. Al
contrario dell’Homo sapiens gli scimpanzé, con cui condividiamo
gran parte del patrimonio genetico, non formano mai gruppi più
grandi di 150 individui. Gli esseri umani usano il linguaggio per
creare miti condivisi – soldi, religione e nazionalismi – che a
loro volta creano legami e permettono di cooperare su vasta scala. Un
algoritmo dell’amore Da animali a dèi è stato scalzato dalla
vetta della classifica delle vendite dal nuovo libro di Harari, Homo
deus. A brief history of tomorrow. In questo lavoro Harari si
avventura nel presente e poi nel futuro, alla ricerca di una
spiegazione del nostro senso d’instabilità e della rotta
intrapresa dalla nostra specie. Alcune ipotesi descritte nel libro
sono allarmanti. Harari suggerisce che gli esseri umani siano solo
una massa di algoritmi biochimici, con poca anima e libero arbitrio.
“Abbiamo capito che anche il sé è una storia inventata”, scrive
Harari, “proprio come le nazioni, dio e il denaro”. In un futuro
prossimo gli esseri umani potrebbero inventare algoritmi che
funzioneranno meglio dei nostri calcoli biologici e serviranno a
migliorare la nostra intelligenza emotiva. Immaginate un algoritmo
dell’amore avanzato che possa evitare gli errori di valutazione e i
desideri superficiali, e stabilire chi è la persona che ci renderà
felici. Potremmo fare a meno degli appuntamenti imbarazzanti,
sposando la persona che ci suggerisce Tinder. Pensate a un Kindle
potenziato in grado di registrare le nostre emozioni mentre leggiamo
un libro. Usando diversi sensori corporei, potrebbe individuare i
passaggi del libro che ci fanno piangere o ridere, i momenti in cui
le pulsazioni aumentano o quelli che ci annoiano o emozionano. Un
apparecchio del genere potrebbe leggere e immagazzinare le nostre
reazioni meglio del nostro cervello, quindi perché non permettergli
di dirci cosa dobbiamo leggere? Se un algoritmo potesse registrare
tutti i sentimenti politici che abbiamo provato nella nostra vita –
come ci siamo sentiti ascoltando ogni discorso di un candidato, ogni
annuncio politico – è naturale pensare che lo stesso algoritmo
potrebbe dirci per chi dobbiamo votare. Perché affidarci alla nostra
memoria difettosa e ai nostri preconcetti quando possiamo votare in
base a cosa abbiamo provato nei momenti importanti dell’ultimo
decennio? Nessun marxista potrebbe più parlare di falsa coscienza.
“Gli algoritmi saranno così bravi a prendere le decisioni al posto
nostro che sarebbe folle non seguire il loro consiglio”, scrive
Harari. Il successo di Da animali a dèi ha trasformato Harari in un
intellettuale di fama mondiale. Chi ha letto il saggio, in cui Harari
critica l’umanità per la sua opera di distruzione dell’ambiente,
non sarà sorpreso di scoprire che le sue previsioni sul futuro sono
altrettanto cupe.“Stiamo assistendo al collasso di una narrazione”,
scrive. “Prima del 1991 esisteva una narrativa della guerra fredda.
Poi la guerra fredda è finita e la nuova narrazione è stata quella
della globalizzazione, della democrazia liberale e della necessità
per tutti di abbracciare la rivoluzione scientifica e tecnologica.
Questa narrazione prevede che tutti i paesi diventino a poco a poco
come l’Europa occidentale e gli Stati Uniti”. Ma c’è un
problema: “Non funziona”, spiega. “Può funzionare per alcuni
paesi e per alcune persone, ma per molti altri no. Stiamo assistendo
al collasso della storia. E quando non esiste una storia che spiega
quello che succede nel mondo è inevitabile che si diffondano
l’insicurezza e la confusione”. La tesi secondo cui gli esseri
umani sono persi senza una buona storia è tipica di Harari. L’altra
fonte d’insicurezza è la tecnologia, che sta provocando un
cambiamento spiazzante, impossibile da gestire per le nostre
istituzioni. “Il ritmo e il volume del lusso di dati nel mondo
contemporaneo è tale che gli elettori non sono più in grado di
reggerlo”, spiega. “Né gli elettori né i governi capiscono cosa
sta succedendo, quindi si sentono insicuri”. Ho incontrato Harari
due volte per parlare del suo ultimo libro. È una persona chiusa e
seria. Fisicamente è minuto, magro magro. Non mostra il minimo
accenno del tono da venditore tipico degli intellettuali alla moda.
Gliel’ho fatto notare. “Non sono così”, mi ha risposto. “Ho
imparato a farlo. Le persone sono adattabili, ci adattiamo quasi a
tutto. Per prima cosa mi sono esercitato a essere famoso in Israele,
e questo mi ha preparato al ruolo d’intellettuale pubblico a
livello internazionale”. Durante tre ore di conversazione sono
riuscito a strappargli solo un sorriso (con la mia barzelletta
preferita su Einstein). Ha un suo senso dell’umorismo, estremamente
asciutto. Il suo inglese è superbo, infatti firma le traduzioni
dall’ebraico dei suoi libri. Quando parla, ricorda Henry Kissinger:
i pensieri emergono come paragrafi perfettamente compiuti, senza
esitazioni o pause di riflessione. Naturalmente insicuro Sei anni fa
Harari era uno sconosciuto professore dell’università ebraica di
Gerusalemme. Gli avevano assegnato una delle materie meno popolari,
storia del mondo. Nessuno storico specialista vuole passare ore a
documentarsi su diversi argomenti prima di ogni lezione. Harari,
però, era soddisfatto del corso: la sua mente cercava collegamenti,
univa i puntini della storia mondiale scolpendo una narrativa nella
vasta massa del sapere. Poi decise di scrivere un libro. All’inizio
non riusciva a trovare un editore in Israele. Tutti gli rispondevano
che gli israeliani non sono interessati a quel genere di storia. Poi
qualcuno ha deciso di puntare sulla sua opera. Quello che distingue
Harari dai molti cronisti del nostro tempo è la chiarezza e la
capacità di mettere a fuoco le cose. È sempre stato una persona
forte. È nato vicino ad Haifa, nel nord di Israele. Il padre era un
ingegnere, la madre una funzionaria. Nessuno dei due era uno
studioso. Harari è sempre stato interessato ai “grandi
interrogativi”, ma crede che sia stata la meditazione a regalargli
la capacità di raccontare una grande storia senza digressioni,
esitazioni e distrazioni. Ha scoperto il buddismo sedici anni fa.
Oggi medita due ore ogni giorno, la mattina e la sera. Fa ritiri
anche di sessanta giorni, a volte in Israele a volte in India, e in
queste occasioni rispetta il silenzio totale, al riparo da ogni
distrazione. Tra disastri ambientali, presa del potere da parte dei
robot e decadenza politica, un pranzo con Harari può essere davvero
deprimente. Non si considera un pessimista, ma vede il suo lavoro
come un’opera “correttiva” dell’ottimismo utopista degli
innovatori tecnologici. Indubbiamente la sua visione è più cupa
rispetto a quella della maggioranza. Non incarna lo stereotipo del
maschio israeliano – rumoroso, vivace, complicato – ma nella sua
sincerità e nelle sue opinioni spietate c’è qualcosa che accomuna
le persone cresciute in un paese duro, poco tollerante con i giri di
parole. “Quando cresci in Israele e in Medio Oriente ti senti per
forza insicuro. L’insicurezza diventa il tuo ambiente naturale”.
Harari è gay. Il marito, Itzik, è anche il suo agente. È convinto
che entrambe le sue identità – ebreo israeliano e gay – lo
abbiamo aiutato a mantenere le distanze dal pensiero convenzionale.
“Quando sei nel mezzo della corrente non puoi capire davvero cosa
succede”, spiega. “Tutto sembra trasparente. Ma trovarsi ai
margini è molto più complicato: devi riflettere sulle cose”.
Riflettere sulle cose è proprio quello che secondo Harari molti di
noi, compresi i politici, non fanno abbastanza. Invece di pianificare
un futuro così incerto, siamo “bloccati nell’ambiente sicuro”
dei dibattiti novecenteschi, perché sono quelli che riusciamo a
capire. “Come dimostrano la Brexit e l’ascesa di Donald Trump,
gran parte della crisi attuale nasce dal fatto che le persone
cominciano a capire che stanno perdendo il potere. Fanno l’errore
d’incolpare Bruxelles o l’élite di Washington. È sbagliato.
Nessuno capisce davvero cosa succede nel mondo e nessuno lo
controlla”. Le uniche persone che hanno una vaga idea della
situazione lavorano nella Silicon valley dove, secondo Harari, si
stanno sviluppando le religioni di domani. “M’interessano gli
scenari, l’ideologia e la mitologia che stanno creando queste
persone”, dice. “Tuttavia penso che molti di loro siano troppo
ingenui, perché non hanno una formazione filosoica e storica, e
fanno le tipiche ipotesi da ingegneri. Non credo però che siano
cattivi. Il problema è che la loro attività non è bilanciata da
altri leader con un’idea alternativa”. I dati, la privacy,
l’automazione del lavoro e il reddito di base, l’etica
dell’intelligenza artificiale, il modo in cui la tecnologia può
aiutare l’ambiente e i poveri: secondo Harari sono i temi che
dovrebbero dominare la politica contemporanea. Gran parte del potere
è passato nelle mani delle élite della tecnologia, ma continuiamo a
prendercela con i vecchi poteri. “La maggioranza delle persone non
capisce cosa sta succedendo”, risponde Harari. “È felice di
avere l’iPhone e di poter leggere la posta elettronica ovunque e in
qualsiasi momento. Non si accorge che sta cedendo la proprietà più
preziosa: i dati. È come all’inizio dell’era moderna, quando gli
imperialisti europei andavano in Africa e compravano interi paesi per
un pugno di perline: oggi regaliamo i nostri averi più preziosi, i
dati, a Google e a Facebook in cambio di qualche video divertente con
i gatti. È difficile cominciare a pensare alla politica nei termini
del ventunesimo secolo”. Vivere per sempre I cambiamenti
evidenziati da Harari e l’incapacità di adattarci al loro ritmo
potrebbero avere conseguenze terrificanti. Secondo Harari,
l’automazione provocherà un’enorme diminuzione dei posti di
lavoro con la nascita di una “classe d’inutili”: miliardi di
persone svuotate di ogni valore economico o politico. “È
cominciato tutto con la classe operaia, che sta diventando la classe
‘non operaia’”, dice. “Ma la prossima ondata di cambiamenti
portati dall’intelligenza artificiale minaccerà soprattutto la
classe media, perché parliamo di lavori che sono facili da
rimpiazzare. È più facile sostituire un medico che un infermiere.
Se sei un medico generico, e stai seduto alla scrivania davanti a un
computer che processa i dati, è molto probabile che sarai sostituito
da una macchina. Se sei un infermiere e hai dei compiti concreti, fai
iniezioni e tutto il resto, allora non possono sostituirti”. Harari
individua due tendenze ideologiche che emergono dalla Silicon valley.
La prima è il “datismo”, la preminenza quasi religiosa delle
informazioni e degli algoritmi, che sostituiranno gli istinti umani
nel processo decisionale. La seconda tendenza è il “tecnoumanesimo”.
Secondo Harari l’umanesimo progressista moderno è un’estensione
del credo ebraico e cristiano nell’anima. Per queste religioni ogni
anima è preziosa perché è stata creata da dio. La maggior parte di
noi crede che l’anima sia stata creata dall’evoluzione, ma
continuiamo a considerarla il bene più prezioso nell’universo, e
da questo deriva il nostro attaccamento ai diritti umani. Il
tecnoumanesimo estende questo concetto: l’ossessione per la vita è
così grande che siamo disposti a tutto per proteggerla e allungarla.
Il concetto di anima eterna potrebbe portarci a distruggere l’umanità
come la conosciamo. Per dirla con le parole di Harari: quello che ci
ha resi sapiens ci renderà dèi. I progressi li vediamo già, in
strumenti come gli elmetti dell’esercito statunitense che usano la
realtà aumentata per accelerare il processo decisionale. Ma il
grosso deve ancora venire. La nanorobotica potrebbe permetterci di
analizzare il sangue distruggendo gli agenti patogeni. Il cervello
umano potrebbe essere collegato a internet in modo da ampliare la
nostra conoscenza semplicemente pensando. Le nostre menti potrebbero
essere collegate l’una all’altra, creando una rete di cervelli.
Tutti sviluppi che, secondo Harari, produrranno enormi
disuguaglianze. In un mondo dove quasi tutti i lavori saranno
automatizzati, le élite non avranno bisogno delle masse. I
miglioramenti biologici non saranno condivisi con equità, e questo
creerà “un’élite cognitiva” che guarderà il resto
dell’umanità con la stessa superiorità che i sapiens riservavano
ai neanderthal. Il desiderio di vivere per sempre ci spingerà verso
tecnologie sempre più potenti e invasive. Harari non ha uno
smartphone, ma se la tecnologia potesse allungargli la vita di dieci
anni alla fine cederebbe. Anche se annuncia una specie di apocalisse
tecnologica, Harari non è un determinista. È convinto che la
tecnologia potrebbe anche portare qualcosa di buono, come energie
rinnovabili efficienti e la capacità di usare le stampanti 3d per
produrre cibo. Secondo lui, dovremmo assumerci la responsabilità
delle nostre azioni: “Se le persone sono preoccupate devono
analizzare la loro vita e le loro decisioni: sugli smartphone e i
computer, e sul trasferimento di autorità agli algoritmi”. Se
fosse vero la metà di quello che dice, la nostra epoca d’instabilità
sarebbe solo all’inizio. Ma come tutti i migliori profeti, Harari
sta lanciando il suo grido d’allarme appena in tempo per cambiare
rotta: “Parliamo di decenni, non di millenni. Se vogliamo trovare
un rimedio, dobbiamo pensarci ora. Fra trent’anni potrebbe essere
troppo tardi”. u as