domenica 20 novembre 2016

Internazionale 19.10.2016
Yuval Noah Harari
Storia del futuro


Per lo scrittore e studioso israeliano, nella Silicon valley si stanno sviluppando
le religioni di domani.
Ma il progresso troppo rapido dell’automazione potrebbe avere conseguenze terribili
di Josh Glancy, The Sunday Times, Regno Unito

Viviamo in una nuova epoca d’instabilità. Il ritmo della nostra vita, la rapidità del cambiamento e l’arrivo di nuove tecnologie sono sorprendenti per tutti e inquietanti per molti. Il potere è passato dalle istituzioni tradizionali alle aziende della Silicon valley. L’algoritmo di Google influenza l’attività imprenditoriale più di qualsiasi strategia industriale elaborata dai governi. Secondo alcuni siamo solo all’inizio, ci stiamo dirigendo incoscientemente verso il momento in cui le macchine diventeranno più intelligenti di noi. Solo alcuni grandi innovatori tecnologici hanno un’idea della rotta che stiamo seguendo. Questa è la tesi di Yuval Noah Harari, uno storico israeliano di quarant’anni, diventato ormai una sorta di profeta quando si tratta di spiegare il passato e prevedere il futuro. È un po’ come il profeta Giona che racconta la caduta di Ninive o come Noè (omonimo dello storico) che mette in guardia i suoi contemporanei sul prossimo diluvio. È l’indovino amato dalla Silicon valley che non ha uno smartphone e non usa i social network. L’uomo che trascorre mesi in silenziosa meditazione per poi riemergere con un libro che spiega alla perfezione la condizione degli esseri umani oggi. Il libro che ha fatto conoscere Harari in tutto il mondo, Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità (Bompiani 2015), è diventato un best seller internazionale nel 2014 dopo essere rimasto per tre anni in cima alla classifica di vendite in Israele. Racconta in che modo un mediocre primate dell’Africa orientale è riuscito a conquistare il mondo in poche decine di millenni. Alla base del libro c’è la teoria secondo cui a rendere grandi gli esseri umani è la loro capacità di raccontare storie. Al contrario dell’Homo sapiens gli scimpanzé, con cui condividiamo gran parte del patrimonio genetico, non formano mai gruppi più grandi di 150 individui. Gli esseri umani usano il linguaggio per creare miti condivisi – soldi, religione e nazionalismi – che a loro volta creano legami e permettono di cooperare su vasta scala. Un algoritmo dell’amore Da animali a dèi è stato scalzato dalla vetta della classifica delle vendite dal nuovo libro di Harari, Homo deus. A brief history of tomorrow. In questo lavoro Harari si avventura nel presente e poi nel futuro, alla ricerca di una spiegazione del nostro senso d’instabilità e della rotta intrapresa dalla nostra specie. Alcune ipotesi descritte nel libro sono allarmanti. Harari suggerisce che gli esseri umani siano solo una massa di algoritmi biochimici, con poca anima e libero arbitrio. “Abbiamo capito che anche il sé è una storia inventata”, scrive Harari, “proprio come le nazioni, dio e il denaro”. In un futuro prossimo gli esseri umani potrebbero inventare algoritmi che funzioneranno meglio dei nostri calcoli biologici e serviranno a migliorare la nostra intelligenza emotiva. Immaginate un algoritmo dell’amore avanzato che possa evitare gli errori di valutazione e i desideri superficiali, e stabilire chi è la persona che ci renderà felici. Potremmo fare a meno degli appuntamenti imbarazzanti, sposando la persona che ci suggerisce Tinder. Pensate a un Kindle potenziato in grado di registrare le nostre emozioni mentre leggiamo un libro. Usando diversi sensori corporei, potrebbe individuare i passaggi del libro che ci fanno piangere o ridere, i momenti in cui le pulsazioni aumentano o quelli che ci annoiano o emozionano. Un apparecchio del genere potrebbe leggere e immagazzinare le nostre reazioni meglio del nostro cervello, quindi perché non permettergli di dirci cosa dobbiamo leggere? Se un algoritmo potesse registrare tutti i sentimenti politici che abbiamo provato nella nostra vita – come ci siamo sentiti ascoltando ogni discorso di un candidato, ogni annuncio politico – è naturale pensare che lo stesso algoritmo potrebbe dirci per chi dobbiamo votare. Perché affidarci alla nostra memoria difettosa e ai nostri preconcetti quando possiamo votare in base a cosa abbiamo provato nei momenti importanti dell’ultimo decennio? Nessun marxista potrebbe più parlare di falsa coscienza. “Gli algoritmi saranno così bravi a prendere le decisioni al posto nostro che sarebbe folle non seguire il loro consiglio”, scrive Harari. Il successo di Da animali a dèi ha trasformato Harari in un intellettuale di fama mondiale. Chi ha letto il saggio, in cui Harari critica l’umanità per la sua opera di distruzione dell’ambiente, non sarà sorpreso di scoprire che le sue previsioni sul futuro sono altrettanto cupe.“Stiamo assistendo al collasso di una narrazione”, scrive. “Prima del 1991 esisteva una narrativa della guerra fredda. Poi la guerra fredda è finita e la nuova narrazione è stata quella della globalizzazione, della democrazia liberale e della necessità per tutti di abbracciare la rivoluzione scientifica e tecnologica. Questa narrazione prevede che tutti i paesi diventino a poco a poco come l’Europa occidentale e gli Stati Uniti”. Ma c’è un problema: “Non funziona”, spiega. “Può funzionare per alcuni paesi e per alcune persone, ma per molti altri no. Stiamo assistendo al collasso della storia. E quando non esiste una storia che spiega quello che succede nel mondo è inevitabile che si diffondano l’insicurezza e la confusione”. La tesi secondo cui gli esseri umani sono persi senza una buona storia è tipica di Harari. L’altra fonte d’insicurezza è la tecnologia, che sta provocando un cambiamento spiazzante, impossibile da gestire per le nostre istituzioni. “Il ritmo e il volume del lusso di dati nel mondo contemporaneo è tale che gli elettori non sono più in grado di reggerlo”, spiega. “Né gli elettori né i governi capiscono cosa sta succedendo, quindi si sentono insicuri”. Ho incontrato Harari due volte per parlare del suo ultimo libro. È una persona chiusa e seria. Fisicamente è minuto, magro magro. Non mostra il minimo accenno del tono da venditore tipico degli intellettuali alla moda. Gliel’ho fatto notare. “Non sono così”, mi ha risposto. “Ho imparato a farlo. Le persone sono adattabili, ci adattiamo quasi a tutto. Per prima cosa mi sono esercitato a essere famoso in Israele, e questo mi ha preparato al ruolo d’intellettuale pubblico a livello internazionale”. Durante tre ore di conversazione sono riuscito a strappargli solo un sorriso (con la mia barzelletta preferita su Einstein). Ha un suo senso dell’umorismo, estremamente asciutto. Il suo inglese è superbo, infatti firma le traduzioni dall’ebraico dei suoi libri. Quando parla, ricorda Henry Kissinger: i pensieri emergono come paragrafi perfettamente compiuti, senza esitazioni o pause di riflessione. Naturalmente insicuro Sei anni fa Harari era uno sconosciuto professore dell’università ebraica di Gerusalemme. Gli avevano assegnato una delle materie meno popolari, storia del mondo. Nessuno storico specialista vuole passare ore a documentarsi su diversi argomenti prima di ogni lezione. Harari, però, era soddisfatto del corso: la sua mente cercava collegamenti, univa i puntini della storia mondiale scolpendo una narrativa nella vasta massa del sapere. Poi decise di scrivere un libro. All’inizio non riusciva a trovare un editore in Israele. Tutti gli rispondevano che gli israeliani non sono interessati a quel genere di storia. Poi qualcuno ha deciso di puntare sulla sua opera. Quello che distingue Harari dai molti cronisti del nostro tempo è la chiarezza e la capacità di mettere a fuoco le cose. È sempre stato una persona forte. È nato vicino ad Haifa, nel nord di Israele. Il padre era un ingegnere, la madre una funzionaria. Nessuno dei due era uno studioso. Harari è sempre stato interessato ai “grandi interrogativi”, ma crede che sia stata la meditazione a regalargli la capacità di raccontare una grande storia senza digressioni, esitazioni e distrazioni. Ha scoperto il buddismo sedici anni fa. Oggi medita due ore ogni giorno, la mattina e la sera. Fa ritiri anche di sessanta giorni, a volte in Israele a volte in India, e in queste occasioni rispetta il silenzio totale, al riparo da ogni distrazione. Tra disastri ambientali, presa del potere da parte dei robot e decadenza politica, un pranzo con Harari può essere davvero deprimente. Non si considera un pessimista, ma vede il suo lavoro come un’opera “correttiva” dell’ottimismo utopista degli innovatori tecnologici. Indubbiamente la sua visione è più cupa rispetto a quella della maggioranza. Non incarna lo stereotipo del maschio israeliano – rumoroso, vivace, complicato – ma nella sua sincerità e nelle sue opinioni spietate c’è qualcosa che accomuna le persone cresciute in un paese duro, poco tollerante con i giri di parole. “Quando cresci in Israele e in Medio Oriente ti senti per forza insicuro. L’insicurezza diventa il tuo ambiente naturale”. Harari è gay. Il marito, Itzik, è anche il suo agente. È convinto che entrambe le sue identità – ebreo israeliano e gay – lo abbiamo aiutato a mantenere le distanze dal pensiero convenzionale. “Quando sei nel mezzo della corrente non puoi capire davvero cosa succede”, spiega. “Tutto sembra trasparente. Ma trovarsi ai margini è molto più complicato: devi riflettere sulle cose”. Riflettere sulle cose è proprio quello che secondo Harari molti di noi, compresi i politici, non fanno abbastanza. Invece di pianificare un futuro così incerto, siamo “bloccati nell’ambiente sicuro” dei dibattiti novecenteschi, perché sono quelli che riusciamo a capire. “Come dimostrano la Brexit e l’ascesa di Donald Trump, gran parte della crisi attuale nasce dal fatto che le persone cominciano a capire che stanno perdendo il potere. Fanno l’errore d’incolpare Bruxelles o l’élite di Washington. È sbagliato. Nessuno capisce davvero cosa succede nel mondo e nessuno lo controlla”. Le uniche persone che hanno una vaga idea della situazione lavorano nella Silicon valley dove, secondo Harari, si stanno sviluppando le religioni di domani. “M’interessano gli scenari, l’ideologia e la mitologia che stanno creando queste persone”, dice. “Tuttavia penso che molti di loro siano troppo ingenui, perché non hanno una formazione filosoica e storica, e fanno le tipiche ipotesi da ingegneri. Non credo però che siano cattivi. Il problema è che la loro attività non è bilanciata da altri leader con un’idea alternativa”. I dati, la privacy, l’automazione del lavoro e il reddito di base, l’etica dell’intelligenza artificiale, il modo in cui la tecnologia può aiutare l’ambiente e i poveri: secondo Harari sono i temi che dovrebbero dominare la politica contemporanea. Gran parte del potere è passato nelle mani delle élite della tecnologia, ma continuiamo a prendercela con i vecchi poteri. “La maggioranza delle persone non capisce cosa sta succedendo”, risponde Harari. “È felice di avere l’iPhone e di poter leggere la posta elettronica ovunque e in qualsiasi momento. Non si accorge che sta cedendo la proprietà più preziosa: i dati. È come all’inizio dell’era moderna, quando gli imperialisti europei andavano in Africa e compravano interi paesi per un pugno di perline: oggi regaliamo i nostri averi più preziosi, i dati, a Google e a Facebook in cambio di qualche video divertente con i gatti. È difficile cominciare a pensare alla politica nei termini del ventunesimo secolo”. Vivere per sempre I cambiamenti evidenziati da Harari e l’incapacità di adattarci al loro ritmo potrebbero avere conseguenze terrificanti. Secondo Harari, l’automazione provocherà un’enorme diminuzione dei posti di lavoro con la nascita di una “classe d’inutili”: miliardi di persone svuotate di ogni valore economico o politico. “È cominciato tutto con la classe operaia, che sta diventando la classe ‘non operaia’”, dice. “Ma la prossima ondata di cambiamenti portati dall’intelligenza artificiale minaccerà soprattutto la classe media, perché parliamo di lavori che sono facili da rimpiazzare. È più facile sostituire un medico che un infermiere. Se sei un medico generico, e stai seduto alla scrivania davanti a un computer che processa i dati, è molto probabile che sarai sostituito da una macchina. Se sei un infermiere e hai dei compiti concreti, fai iniezioni e tutto il resto, allora non possono sostituirti”. Harari individua due tendenze ideologiche che emergono dalla Silicon valley. La prima è il “datismo”, la preminenza quasi religiosa delle informazioni e degli algoritmi, che sostituiranno gli istinti umani nel processo decisionale. La seconda tendenza è il “tecnoumanesimo”. Secondo Harari l’umanesimo progressista moderno è un’estensione del credo ebraico e cristiano nell’anima. Per queste religioni ogni anima è preziosa perché è stata creata da dio. La maggior parte di noi crede che l’anima sia stata creata dall’evoluzione, ma continuiamo a considerarla il bene più prezioso nell’universo, e da questo deriva il nostro attaccamento ai diritti umani. Il tecnoumanesimo estende questo concetto: l’ossessione per la vita è così grande che siamo disposti a tutto per proteggerla e allungarla. Il concetto di anima eterna potrebbe portarci a distruggere l’umanità come la conosciamo. Per dirla con le parole di Harari: quello che ci ha resi sapiens ci renderà dèi. I progressi li vediamo già, in strumenti come gli elmetti dell’esercito statunitense che usano la realtà aumentata per accelerare il processo decisionale. Ma il grosso deve ancora venire. La nanorobotica potrebbe permetterci di analizzare il sangue distruggendo gli agenti patogeni. Il cervello umano potrebbe essere collegato a internet in modo da ampliare la nostra conoscenza semplicemente pensando. Le nostre menti potrebbero essere collegate l’una all’altra, creando una rete di cervelli. Tutti sviluppi che, secondo Harari, produrranno enormi disuguaglianze. In un mondo dove quasi tutti i lavori saranno automatizzati, le élite non avranno bisogno delle masse. I miglioramenti biologici non saranno condivisi con equità, e questo creerà “un’élite cognitiva” che guarderà il resto dell’umanità con la stessa superiorità che i sapiens riservavano ai neanderthal. Il desiderio di vivere per sempre ci spingerà verso tecnologie sempre più potenti e invasive. Harari non ha uno smartphone, ma se la tecnologia potesse allungargli la vita di dieci anni alla fine cederebbe. Anche se annuncia una specie di apocalisse tecnologica, Harari non è un determinista. È convinto che la tecnologia potrebbe anche portare qualcosa di buono, come energie rinnovabili efficienti e la capacità di usare le stampanti 3d per produrre cibo. Secondo lui, dovremmo assumerci la responsabilità delle nostre azioni: “Se le persone sono preoccupate devono analizzare la loro vita e le loro decisioni: sugli smartphone e i computer, e sul trasferimento di autorità agli algoritmi”. Se fosse vero la metà di quello che dice, la nostra epoca d’instabilità sarebbe solo all’inizio. Ma come tutti i migliori profeti, Harari sta lanciando il suo grido d’allarme appena in tempo per cambiare rotta: “Parliamo di decenni, non di millenni. Se vogliamo trovare un rimedio, dobbiamo pensarci ora. Fra trent’anni potrebbe essere troppo tardi”. u as