domenica 20 novembre 2016

Internazionale 19.10.2016
Religione senza fede
di Christopher Kavanagh, Aeon, Regno Unito

Molti giapponesi si dichiarano non credenti ma sono legati a diversi rituali.
E sfuggono alle categorie occidentali che distinguono chi è religioso e chi no.
Sin dagli albori dell’antropologia, della sociologia e della psicologia, la religione è stata oggetto di fascinazione. Pensatori come Sigmund Freud, Émile Durkheim e Max Weber cercarono di dissezionarla, classificarla ed esplorarne le funzioni psicologiche esociali. E molto prima dell’avvento delle scienze sociali moderne, filosoi come Senofane, Lucrezio, David Hume e Ludwig Feuerbach si erano interrogati sulle origini della religione. Nel secolo trascorso dalla nascita delle scienze sociali, l’interesse per la religione non è diminuito, ma è svanita la fiducia nelle grandi teorie che la riguardano. Ben pochi oggi appoggerebbero la tesi su cui insisteva Freud, cioè che le origini della religione si intrecciano al desiderio sessuale edipico nei confronti della madre. Il rapporto stabilito da Weber tra l’etica del lavoro protestante e le origini del capitalismo potrebbe essere ancora influente, ma i raffronti proposti dal sociologo tra religione e cultura del mondo occidentale e di quello orientale sono ormai giustamente ritenuti sbagliati sul piano storico e profondamente eurocentrici. Oggi tesi così generiche sulla religione sono guardate con scetticismo e un relativismo circoscritto è diventato la norma. Ma un nuovo metodo empirico per studiare la religione, detto scienza cognitiva della religione, ha risvegliato i fantasmi della grandezza speculativa. Le spiegazioni dei credo e delle pratiche religiose date da questo tipo di studi sono ispirate alle teorie dell’evoluzione e quindi implicano processi cognitivi ritenuti prevalenti, se non universali, tra gli esseri umani. Questo metodo, come i suoi predecessori vittoriani, permette di scoprire elementi comuni e universali tra le tante idee, fedi e pratiche religiose presenti nella storia e nelle culture. Ma, a differenza di quanto avveniva in passato, oggi i ricercatori in linea di massima evitano di dare un’unica spiegazione causale per la religione. Secondo loro tentativi del genere non hanno senso, sarebbe come cercare un’unica spiegazione per l’arte o la scienza. Queste categorie sono semplicemente troppo ampie per un’analisi simile. Viceversa, come sostiene, l’antropologo cognitivo dell’università di Oxford Harvey Whitehouse, uno studio scientifico della religione deve cominciare scomponendo il concetto di religione in elementi specifici da indagare e spiegare singolarmente, come la fede in divinità superiori giudicanti o la partecipazione a riti collettivi. Secondo chi critica la scienza cognitiva della religione, questo criterio ripete gli errori dei grandi pensatori del passato, mascherandoli con una teoria alla moda. Reiica il concetto di religione, applicando una prospettiva universale ed etnocentrica che non riesce a riconoscere le diversità culturali. Ironicamente, forse, sono proprio gli studiosi di scienza delle religioni i più scettici sull’utilità del termine “religione”. Per loro questa parola è irreparabilmente occidentale e quindi carica di presupposti legati alle istituzioni religiose abramitiche dominanti in occidente. In Manufacturing religion (Fabbricare la religione, 1997), per esempio, lo studioso di scienza delle religioni Russell McCutcheon, dell’università dell’Alabama, scrive che chi tratta la religione come una categoria naturale ha prodotto analisi “astoriche, apolitiche e feticistiche”. Sono critiche non prive di valore. Gli studiosi nordamericani ed europei tendono ad associare la religione a fedi professate, partecipazione alle funzioni religiose, istituzioni gerarchiche e appartenenza esclusiva. Sono tutte caratteristiche delle tradizioni abramitiche, ma in generale nel mondo nessuna di loro è essenziale per la fede e la pratica religiosa. Per dimostrare i limiti dei concetti occidentali prevalenti, dobbiamo esaminare la religione in un contesto non occidentale, per esempio in Giappone. Vivo in questo paese da quattro anni, svolgendo ricerche sui riti e sui legami collettivi. La grande maggioranza dei giapponesi dichiara di non avere forti convinzioni religiose e sono in pochi a frequentare regolarmente le funzioni. Eppure, molta gente partecipa allegramente agli eventi e alle feste di diverse tradizioni religiose. In effetti, per molti giapponesi la decisione di sposarsi con rito shintoista o cristiano non dipende dalla fede, ma piuttosto dalla preferenza della sposa per il kimono o per l'abito bianco. E questo significa che la società giapponese non e religiosa, come sostengono molti sondaggi e alcuni studiosi? Oppure dobbiamo ampliare le nostre idee su cosa, di fatto, costituisca la religione? Prova di resistenza La neve cade sulla cittadina di Kikonai, nel nord del Giappone, e una folla si riunisce nel cortile di un santuario shintoista. Tutti gli sguardi sono concentrati sull'entrata dell'edificio, addossato in modo pittoresco al fianco della montagna. Poco dopo spuntano quattro giovani uomini col volto di pietra e le braccia incrociate sul petto. Malgrado il freddo intenso sono nudi, a parte un panno bianco sui fianchi e un sottile cappello di tessuto. Mordono dei pezzi di stoffa arrotolati per non battere i denti. Dopo una pausa, scendono i gradini di pietra del santuario e salgono su una piattaforma di paglia. Rivolgendosi alla folla si inginocchiano a turno, mentre il più anziano del gruppo getta dell'acqua gelata sulle loro schiene nude. La procedura si ripete per tre volte, e l'ultima volta l'acqua viene fatta scorrere lentamente sulle loro teste. Quando la sequenza e completa, gli uomini risalgono lentamente fino al santuario, con il vapore che esala dalle schiene arrossate. Ma per loro non e ancora finita: torneranno poco più di due ore dopo per ricominciare da capo, e faranno cosi per due giorni. Ciascuno di loro si è impegnato a sottoporsi allo stesso rituale di due giorni per quattro anni consecutivi, una promessa che in 150 anni di storia nessuno ha mai violato. Questa prova di resistenza fa parte di un rito shintoista di purificazione con l'acqua noto come misogi ed e l'evento centrale di una festa popolare di Kikonai. E un rituale insolito per la sua durezza ma per molti altri versi e tipico di celebrazioni dette matsuri, che si svolgono in tutto il Giappone. I più famosi matsuri delle grandi città possono attrarre milioni di spettatori, e nei villaggi più remoti queste feste sono tra gli eventi più importanti. Ma i matsuri sono semplicemente eventi comunitari e culturali o sono occasioni specificamente religiose? Questa domanda presuppone una barriera artificiale tra cultura e religione, e ignora una serie di fatti. I matsuri si svolgono soprattutto nei santuari o nei templi, sono organizzati da sacerdoti e volontari affiliati, includono dei simboli religiosi, prevedono preghiere e si fondano su concetti teologici o metaisici come la purificazione. Esistono anche rituali apertamente laici, come i festival di danza Yosakoi S.ran, in cui le squadre competono eseguendo balli coreografici, e questo rende molto piu significativa la religiosità dei misogi matsuri e di altri pratiche radicate nella cultura giapponese. In che senso, allora, il Giappone non è religioso? Le due tradizioni religiose dominanti nel paese sono lo shintoismo, una religione autoctona incentrata su divinità o spiriti chiamati kami, e il buddismo, che si diffuse in Giappone dalla Corea e dalla Cina circa 1500 anni fa. Entrambe le tradizioni sono presenti nei matsuri perchè la maggioranza di queste feste e associata a determinati santuari o templi ed è calendarizzata in modo da coincidere con le festività religiose, come l'Obon (la festa buddista per onorare gli antenati) e lo Sh.gatsu (le celebrazioni del nuovo anno). D'altra parte e anche vero che pochi partecipanti ai matsuri conoscono i dettagli dottrinali e sanno a quali divinità e dedicato un evento. Malgrado la popolarità delle feste religiose e la diffusione dei santuari shintoisti, e giusto definire il Giappone un paese laico poco interessato alla religione? Anche le indagini fatte su larga scala sembrano confermare che i giapponesi sono poco interessati alla religione. Secondo il sondaggio World values, condotto tra il 2010 e il 2014 in 61 paesi, l'87,1 per cento degli intervistati giapponesi ha dichiarato di non essere affiliato a una chiesa o a una organizzazione religiosa, e solo il 20,9 per cento si è definito credente, indipendentemente dalla partecipazione alle funzioni religiose. Queste cifre piazzavano il Giappone tra i paesi meno religiosi del mondo, preceduto solo dalla Cina continentale e da Hong Kong. Non sono dati isolati. Anche altri studi hanno ottenuto risposte simili. Secondo il sondaggio condotto dalla WinGallup nel 2014, per esempio, solo il 13 per cento degli intervistati giapponesi affermava di essere credente e in un sondaggio online che ho svolto l'anno scorso, su oltre mille intervistati giapponesi, la percentuale scendeva al 10 per cento. Questi risultati sembrano confermare con forza la tesi che il Giappone non è un paese religioso. Ma la realtà è più complessa. Quasi a smentire queste cifre, le più recenti statistiche pubblicate dal governo giapponese riferiscono che nel paese sono registrate moltissime organizzazioni religiose, tra cui 81.097 santuari shintoisti e 75.922 templi buddisti. I dati indicano anche che il 72 per cento circa della popolazione giapponese aderisce allo shintoismo e il 68 per cento e seguace del buddismo. Sommando queste due percentuali si supera il 100 per cento, ma non c'è nessun errore di calcolo. Semplicemente, i numeri dimostrano che in Giappone l'affiliazione religiosa non è esclusiva. Molte persone sono state calcolate due volte, una volta come aderenti allo scintoismo e un'altra come aderenti al buddismo. I giapponesi sono prevalentemente sincretici, cioè inglobano e fondono insieme elementi di ogni tradizione. Divisione del lavoro Ian Reader, sociologo e professore emerito dell'universita di Manchester, nel Regno Unito, studia la religione in Giappone da decenni. Reader osserva che la lunga coesistenza di shintoismo e buddismo ha prodotto una divisione del lavoro: i riti shintoisti sono ampiamente praticati all'inizio della vita e per le celebrazioni stagionali. Il buddismo si occupa soprattutto della morte e del culto degli antenati. Il cristianesimo, a cui aderisce solo tra l'1 e il 2 per cento della popolazione, è associato ai matrimoni. Di conseguenza, per un giapponese e perfettamente normale essere portato in un santuario scintoista per ricevere la benedizione da bambino, sposarsi con rito cristiano e infine avere un funerale buddista. Il pluralismo religioso non e semplicemente tollerato, e una caratteristica fondamentale del contesto religioso giapponese. E allora come si concilia la situazione apparentemente paradossale di una società che e dichiaratamente non religiosa, eppure allo stesso tempo sembra sostenere un'abbondanza di istituzioni religiose e celebra migliaia di matsuri ogni anno? Come dare un senso al fatto che persone che si definiscono non religiose sono classificate come aderenti al buddismo e allo shintoismo? Tanto per cominciare, le statistiche sono meno contraddittorie di quanto sembri. I dati ufficiali si basano su stime di affiliazione fornite dai templi e dai santuari, e quindi non si riferiscono alla fede personale nè valutano la coscienza che uno ha di se (e probabilmente sono gonfiate). Inoltre, dato che le tradizioni religiose prevalenti in Giappone non richiedono una frequenza regolare, l'affiliazione tende a riferirsi ad arcaici sistemi di registrazione obbligatoria o alle cerimonie funebri. Per molti, poi, avallare l'appartenenza a una religione viene associato a uno sgradevole proselitismo e a culti fanatici come il millenaristico Aum Shinriky., il cui famigerato attentato con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo nel 1995 continua a perseguitare l'immaginario collettivo. Anche se, stando al sondaggio World values, solo lf11,8 per cento degli intervistati giapponesi si definiva appartenente a una religione, il 40,8 per cento degli stessi intervistati dichiarava di credere in Dio (o negli dei). Analogamente, nello studio che ho condotto l'anno scorso, solo il 10 per cento dei giapponesi si definiva religioso, ma il 43,5 per cento conveniva che esiste un regno spirituale al di la di quello fisico, il 30,2 per cento sosteneva che esistono esseri spirituali (come gli angeli e i demoni), e il 36,5 per cento credeva che esiste una qualche forma di vita dopo la morte. Questi risultati indicano che per i giapponesi dichiararsi di una tradizione religiosa non impedisce di seguire riti diversi e che la fede personale non viene presa in considerazione dalle statistiche ufficiali sull'appartenenza religiosa. Eppure sarebbe un errore interpretare questi risultati come una dimostrazione del fatto che in Giappone la forte fede religiosa e centrale per le pratiche religiose. A differenza degli Stati Uniti, dove il 48,8 per cento della popolazione ha dichiarato che Dio è molto importante nella sua vita, questa percentuale scende al 6,1 per cento in Giappone. Una fede solida, deduco, non è un elemento essenziale della religione in questo paese. Piuttosto, e una caratteristica delle religioni monoteistiche dominanti in occidente. In molte società non è necessario credere nel soprannaturale perchè questo e considerato una verità evidente di per se oppure, come nel caso del Giappone, riceve molta meno attenzione della pratica. Una fede forte non è una componente necessaria della religione. Dopo il misogi di Kikonai, il mio gruppo di ricerca e io incontriamo i quattro giovani uomini a una cena per festeggiare la ifne della cerimonia. Gli chiediamo cosa pensano dell'esperienza. Non spiegano la loro partecipazione in termini di fede o devozione religiosa, ma parlano di rispetto per le tradizioni, vincoli sociali, obblighi e possibili benedizioni per la comunità. Analogamente, quando gli chiedo del ruolo della celebrazione come rito di passaggio (chi lo fa non deve essere sposato), nessuno di loro lo ritiene particolarmente significativo. Uno scherza dicendo che la sua partecipazione al rito difficilmente attirerà le donne di Tokyo, dove si è trasferito per lavoro.
Altari casalinghi
La distanza tra le pratiche religiose giapponesi e una visione della religione basata sulla fede emerge di nuovo quando un illustre professore statunitense di psicologia, in visita nel mio laboratorio in Giappone, si trova a constatare la coesistenza nelle case dei giapponesi di altari buddisti e shintoisti. Molte famiglie hanno in casa sia un altare buddista per onorare i parenti scomparsi (butsudan) sia un altare shintoista, chiamato mensola degli dei (kamidana), scontata dalla maggior parte dei giapponesi, ma può colpire chi ha un retroterra religioso più esclusivo. Dopo aver saputo di questa pratica, il professore si rivolge a un collega giapponese e gli chiede se anche lui ha due altari a casa sua. Sì, nella casa di famiglia, risponde l'altro. Il professore chiede stupito in quale dei due sistemi quello creda veramente. Il mio collega giapponese e perplesso. Nessuno dei due, ribatte, e poi chiarisce: O forse entrambi!. Non si è mai chiesto se crede negli altari, spiega. Che nel contesto religioso giapponese la pratica sia più importante della fede e sottolineato anche in Practically religious (Praticamente religiosi), un libro del 1998 di Reader e George Tanabe, un altro studioso di religione giapponese. La tesi centrale degli autori e che la religione giapponese non consiste tanto nell'abbracciare credenze o tradizioni specifiche per ottenere la salvezza dopo la morte, ma piuttosto e orientata a ottenere benefici pratici nella vita presente (genze riyaku) grazie allo svolgimento di varie attività come la visita a santuari e templi, l'acquisto di amuleti e portafortuna e le preghiere.
Vantaggi garantiti
Le preghiere che procurano la guarigione e assicurano fortuna o altri benefici sono frequenti in tutti i sistemi religiosi, ma Reader e Tanabe sostengono che in Giappone sono al centro del mondo religioso e rappresentano la religione comune. Queste cerimonie terrene sono sostenute da santuari e templi che si fanno pubblicità in base ai vantaggi che possono garantire. Alcuni promettono di soddisfare qualunque desiderio, dal successo in amore al superamento degli esami passando per obiettivi più prosaici come curare le emorroidi o mantenere una buona igiene orale. A volte si possono generare tensioni, quando le pratiche sembrano contraddire il messaggio spirituale di rinuncia, ma questa ambiguità e generalmente tollerata. Basta pensare, per esempio, che sempre più sacerdoti shintoisti e buddisti in Giappone si sposano. Contrariamente all'immagine diffusa nel mondo occidentale, secondo cui la religione giapponese sarebbe popolata di asceti che meditano sulle montagne, le sale di meditazione sono spesso assenti nei templi e nei santuari. I sacerdoti invece sono molto impegnati a fornire vari servizi religiosi a pagamento. Di fatto, il carattere potenzialmente lucroso dei funerali buddisti ha contribuito a generare il sospetto che molti sacerdoti siano interessati soprattutto ad accumulare ricchezze. L'intreccio di interessi terreni e spirituali non e una caratteristica esclusiva del Giappone, naturalmente. Ma ci sono alcune chiare discrepanze tra la religione del paese e le tradizioni monoteistiche occidentali. Allora la parola religione può descrivere quello che troviamo in Giappone? La risposta è sì, ma con un'importante precisazione: perchè il concetto di religione rimanga un'utile categoria interculturale dev'essere spogliato dei suoi presupposti abramitici e messo in relazione con una serie di idee e tradizioni che non si basino solo su credenze sovrannaturali, ma anche su pratiche come rituali e feste. Alcuni dissentono da questa tesi. Lo studioso di scienza delle religioni Jason Ananda Josephson, del Williams college in Massachusetts, per esempio, mi spiega che religione è un termine fondamentalmente eurocentrico che funziona sempre, per quanto ben camuffato, per descrivere una somiglianza percepita con il cristianesimo europeo. Josephson ha elaborato questo punto di vista nel suo acclamato libro The invention of religion in Japan (L'invenzione della religione in Giappone, 2012), che illustra in dettaglio i negoziati e le lotte politiche che ci furono nel periodo Meiji (1868-1915) per stabilire cosa fosse la religione. Josephson sottolinea che l'attuale traduzione della parola religione in giapponese . sh.ky. . è un neologismo del Meiji, che trasformò le cose classificate con questo termine e le cose che ne furono escluse, e spiega che per lui un altro grande problema del termine religione e che ha una molteplicità di significati incompatibili. Ian Reader mi dice che, malgrado la sua ammirazione per il lavoro di Josephson, non e assolutamente d'accordo con l'idea che dovremmo buttare a mare un termine che in quel contesto ha sviluppato una serie di significati solo perchè forse è stato coniato nella metà dell'ottocento. Mi spiega anche che in Giappone esiste una tradizione intellettuale e politica che dà peso alla nozione di religione come categoria e questo dimostra che la religione non è una qualche struttura occidentale imposta arbitrariamente da potenze di tipo coloniale. Reader aggiunge che il termine può anche essere vago, ma a suo giudizio serve come utile cornice di discussione e interpretazione per gli altri, e gli consente di confrontarsi con studiosi che affrontano problemi simili in altri paesi. Come antropologo cognitivo che lavora su ampi progetti interdisciplinari e interculturali, possibili solo perchè viene usata una terminologia che include una definizione di religione ricca di sfumature, non posso che essere d'accordo.
Una famiglia di concetti
La religione è una categoria che non è sempre e ovunque chiaramente distinguibile da altre sfere della vita. Ed è anche vero che ciò che chiamiamo “religione” varia a seconda dell’epoca e del luogo. Ma questo non rende il termine semanticamente incoerente, e il suo uso moderno non deve necessariamente restare ancorato agli usi del passato. Le grandi teorie di una volta sono fallite perché concepivano la religione come un fenomeno monolitico che si evolveva linearmente nel tempo. Gli approcci moderni non devono necessariamente fare propri questi presupposti. Piuttosto, come avviene con le definizioni di religione attualmente in uso nel campo della scienza cognitiva della religione, riconosciamo che la religione non attiene a una singola cosa, ma a una famiglia di concetti correlati che servono a individuare un campo d’indagine significativo e circoscritto. I motivi per abbandonare il termine “religione” a causa della sua implicita vaghezza non sono più di quelli per rifiutare altri termini generici, come “politica” o “parentela”. In ultima analisi, dobbiamo rinunciare a certe minuzie accademiche per tornare a studiare ciò che vediamo nel mondo mettendo all’opera i nostri – sempre imperfetti – strumenti analitici.
Ci sono santuari e templi che si fanno pubblicità in base ai vantaggi che possono garantire, dal successo in amore alla cura delle emorroidi .
L’AUTORE Christopher Kavanagh è un antropologo dell’Università di Oxford specializzato in religioni dell’Asia orientale.