Internazionale
19.10.2016
Religione
senza fede
di
Christopher Kavanagh, Aeon, Regno Unito
Molti
giapponesi si dichiarano non credenti ma sono legati a diversi
rituali.
E
sfuggono alle categorie occidentali che distinguono chi è religioso
e chi no.
Sin
dagli albori dell’antropologia, della sociologia e della
psicologia, la religione è stata oggetto di fascinazione. Pensatori
come Sigmund Freud, Émile Durkheim e Max Weber cercarono di
dissezionarla, classificarla ed esplorarne le funzioni psicologiche
esociali. E molto prima dell’avvento delle scienze sociali moderne,
filosoi come Senofane, Lucrezio, David Hume e Ludwig Feuerbach si
erano interrogati sulle origini della religione. Nel secolo trascorso
dalla nascita delle scienze sociali, l’interesse per la religione
non è diminuito, ma è svanita la fiducia nelle grandi teorie che la
riguardano. Ben pochi oggi appoggerebbero la tesi su cui insisteva
Freud, cioè che le origini della religione si intrecciano al
desiderio sessuale edipico nei confronti della madre. Il rapporto
stabilito da Weber tra l’etica del lavoro protestante e le origini
del capitalismo potrebbe essere ancora influente, ma i raffronti
proposti dal sociologo tra religione e cultura del mondo occidentale
e di quello orientale sono ormai giustamente ritenuti sbagliati sul
piano storico e profondamente eurocentrici. Oggi tesi così generiche
sulla religione sono guardate con scetticismo e un relativismo
circoscritto è diventato la norma. Ma un nuovo metodo empirico per
studiare la religione, detto scienza cognitiva della religione, ha
risvegliato i fantasmi della grandezza speculativa. Le spiegazioni
dei credo e delle pratiche religiose date da questo tipo di studi
sono ispirate alle teorie dell’evoluzione e quindi implicano
processi cognitivi ritenuti prevalenti, se non universali, tra gli
esseri umani. Questo metodo, come i suoi predecessori vittoriani,
permette di scoprire elementi comuni e universali tra le tante idee,
fedi e pratiche religiose presenti nella storia e nelle culture. Ma,
a differenza di quanto avveniva in passato, oggi i ricercatori in
linea di massima evitano di dare un’unica spiegazione causale per
la religione. Secondo loro tentativi del genere non hanno senso,
sarebbe come cercare un’unica spiegazione per l’arte o la
scienza. Queste categorie sono semplicemente troppo ampie per
un’analisi simile. Viceversa, come sostiene, l’antropologo
cognitivo dell’università di Oxford Harvey Whitehouse, uno studio
scientifico della religione deve cominciare scomponendo il concetto
di religione in elementi specifici da indagare e spiegare
singolarmente, come la fede in divinità superiori giudicanti o la
partecipazione a riti collettivi. Secondo chi critica la scienza
cognitiva della religione, questo criterio ripete gli errori dei
grandi pensatori del passato, mascherandoli con una teoria alla moda.
Reiica il concetto di religione, applicando una prospettiva
universale ed etnocentrica che non riesce a riconoscere le diversità
culturali. Ironicamente, forse, sono proprio gli studiosi di scienza
delle religioni i più scettici sull’utilità del termine
“religione”. Per loro questa parola è irreparabilmente
occidentale e quindi carica di presupposti legati alle istituzioni
religiose abramitiche dominanti in occidente. In Manufacturing
religion (Fabbricare la religione, 1997), per esempio, lo studioso di
scienza delle religioni Russell McCutcheon, dell’università
dell’Alabama, scrive che chi tratta la religione come una categoria
naturale ha prodotto analisi “astoriche, apolitiche e
feticistiche”. Sono critiche non prive di valore. Gli studiosi
nordamericani ed europei tendono ad associare la religione a fedi
professate, partecipazione alle funzioni religiose, istituzioni
gerarchiche e appartenenza esclusiva. Sono tutte caratteristiche
delle tradizioni abramitiche, ma in generale nel mondo nessuna di
loro è essenziale per la fede e la pratica religiosa. Per dimostrare
i limiti dei concetti occidentali prevalenti, dobbiamo esaminare la
religione in un contesto non occidentale, per esempio in Giappone.
Vivo in questo paese da quattro anni, svolgendo ricerche sui riti e
sui legami collettivi. La grande maggioranza dei giapponesi dichiara
di non avere forti convinzioni religiose e sono in pochi a
frequentare regolarmente le funzioni. Eppure, molta gente partecipa
allegramente agli eventi e alle feste di diverse tradizioni
religiose. In effetti, per molti giapponesi la decisione di sposarsi
con rito shintoista o cristiano non dipende dalla fede, ma piuttosto
dalla preferenza della sposa per il kimono o per l'abito bianco. E
questo significa che la società giapponese non e religiosa, come
sostengono molti sondaggi e alcuni studiosi? Oppure dobbiamo ampliare
le nostre idee su cosa, di fatto, costituisca la religione? Prova di
resistenza La neve cade sulla cittadina di Kikonai, nel nord del
Giappone, e una folla si riunisce nel cortile di un santuario
shintoista. Tutti gli sguardi sono concentrati sull'entrata
dell'edificio, addossato in modo pittoresco al fianco della montagna.
Poco dopo spuntano quattro giovani uomini col volto di pietra e le
braccia incrociate sul petto. Malgrado il freddo intenso sono nudi, a
parte un panno bianco sui fianchi e un sottile cappello di tessuto.
Mordono dei pezzi di stoffa arrotolati per non battere i denti. Dopo
una pausa, scendono i gradini di pietra del santuario e salgono su
una piattaforma di paglia. Rivolgendosi alla folla si inginocchiano a
turno, mentre il più anziano del gruppo getta dell'acqua gelata
sulle loro schiene nude. La procedura si ripete per tre volte, e
l'ultima volta l'acqua viene fatta scorrere lentamente sulle loro
teste. Quando la sequenza e completa, gli uomini risalgono lentamente
fino al santuario, con il vapore che esala dalle schiene arrossate.
Ma per loro non e ancora finita: torneranno poco più di due ore dopo
per ricominciare da capo, e faranno cosi per due giorni. Ciascuno di
loro si è impegnato a sottoporsi allo stesso rituale di due giorni
per quattro anni consecutivi, una promessa che in 150 anni di storia
nessuno ha mai violato. Questa prova di resistenza fa parte di un
rito shintoista di purificazione con l'acqua noto come misogi ed e
l'evento centrale di una festa popolare di Kikonai. E un rituale
insolito per la sua durezza ma per molti altri versi e tipico di
celebrazioni dette matsuri, che si svolgono in tutto il Giappone. I
più famosi matsuri delle grandi città possono attrarre milioni di
spettatori, e nei villaggi più remoti queste feste sono tra gli
eventi più importanti. Ma i matsuri sono semplicemente eventi
comunitari e culturali o sono occasioni specificamente religiose?
Questa domanda presuppone una barriera artificiale tra cultura e
religione, e ignora una serie di fatti. I matsuri si svolgono
soprattutto nei santuari o nei templi, sono organizzati da sacerdoti
e volontari affiliati, includono dei simboli religiosi, prevedono
preghiere e si fondano su concetti teologici o metaisici come la
purificazione. Esistono anche rituali apertamente laici, come i
festival di danza Yosakoi S.ran, in cui le squadre competono
eseguendo balli coreografici, e questo rende molto piu significativa
la religiosità dei misogi matsuri e di altri pratiche radicate nella
cultura giapponese. In che senso, allora, il Giappone non è
religioso? Le due tradizioni religiose dominanti nel paese sono lo
shintoismo, una religione autoctona incentrata su divinità o spiriti
chiamati kami, e il buddismo, che si diffuse in Giappone dalla Corea
e dalla Cina circa 1500 anni fa. Entrambe le tradizioni sono presenti
nei matsuri perchè la maggioranza di queste feste e associata a
determinati santuari o templi ed è calendarizzata in modo da
coincidere con le festività religiose, come l'Obon (la festa
buddista per onorare gli antenati) e lo Sh.gatsu (le celebrazioni del
nuovo anno). D'altra parte e anche vero che pochi partecipanti ai
matsuri conoscono i dettagli dottrinali e sanno a quali divinità e
dedicato un evento. Malgrado la popolarità delle feste religiose e
la diffusione dei santuari shintoisti, e giusto definire il Giappone
un paese laico poco interessato alla religione? Anche le indagini
fatte su larga scala sembrano confermare che i giapponesi sono poco
interessati alla religione. Secondo il sondaggio World values,
condotto tra il 2010 e il 2014 in 61 paesi, l'87,1 per cento degli
intervistati giapponesi ha dichiarato di non essere affiliato a una
chiesa o a una organizzazione religiosa, e solo il 20,9 per cento si
è definito credente, indipendentemente dalla partecipazione alle
funzioni religiose. Queste cifre piazzavano il Giappone tra i paesi
meno religiosi del mondo, preceduto solo dalla Cina continentale e da
Hong Kong. Non sono dati isolati. Anche altri studi hanno ottenuto
risposte simili. Secondo il sondaggio condotto dalla WinGallup nel
2014, per esempio, solo il 13 per cento degli intervistati giapponesi
affermava di essere credente e in un sondaggio online che ho svolto
l'anno scorso, su oltre mille intervistati giapponesi, la percentuale
scendeva al 10 per cento. Questi risultati sembrano confermare con
forza la tesi che il Giappone non è un paese religioso. Ma la realtà
è più complessa. Quasi a smentire queste cifre, le più recenti
statistiche pubblicate dal governo giapponese riferiscono che nel
paese sono registrate moltissime organizzazioni religiose, tra cui
81.097 santuari shintoisti e 75.922 templi buddisti. I dati indicano
anche che il 72 per cento circa della popolazione giapponese aderisce
allo shintoismo e il 68 per cento e seguace del buddismo. Sommando
queste due percentuali si supera il 100 per cento, ma non c'è nessun
errore di calcolo. Semplicemente, i numeri dimostrano che in Giappone
l'affiliazione religiosa non è esclusiva. Molte persone sono state
calcolate due volte, una volta come aderenti allo scintoismo e
un'altra come aderenti al buddismo. I giapponesi sono prevalentemente
sincretici, cioè inglobano e fondono insieme elementi di ogni
tradizione. Divisione del lavoro Ian Reader, sociologo e professore
emerito dell'universita di Manchester, nel Regno Unito, studia la
religione in Giappone da decenni. Reader osserva che la lunga
coesistenza di shintoismo e buddismo ha prodotto una divisione del
lavoro: i riti shintoisti sono ampiamente praticati all'inizio della
vita e per le celebrazioni stagionali. Il buddismo si occupa
soprattutto della morte e del culto degli antenati. Il cristianesimo,
a cui aderisce solo tra l'1 e il 2 per cento della popolazione, è
associato ai matrimoni. Di conseguenza, per un giapponese e
perfettamente normale essere portato in un santuario scintoista per
ricevere la benedizione da bambino, sposarsi con rito cristiano e
infine avere un funerale buddista. Il pluralismo religioso non e
semplicemente tollerato, e una caratteristica fondamentale del
contesto religioso giapponese. E allora come si concilia la
situazione apparentemente paradossale di una società che e
dichiaratamente non religiosa, eppure allo stesso tempo sembra
sostenere un'abbondanza di istituzioni religiose e celebra migliaia
di matsuri ogni anno? Come dare un senso al fatto che persone che si
definiscono non religiose sono classificate come aderenti al buddismo
e allo shintoismo? Tanto per cominciare, le statistiche sono meno
contraddittorie di quanto sembri. I dati ufficiali si basano su stime
di affiliazione fornite dai templi e dai santuari, e quindi non si
riferiscono alla fede personale nè valutano la coscienza che uno ha
di se (e probabilmente sono gonfiate). Inoltre, dato che le
tradizioni religiose prevalenti in Giappone non richiedono una
frequenza regolare, l'affiliazione tende a riferirsi ad arcaici
sistemi di registrazione obbligatoria o alle cerimonie funebri. Per
molti, poi, avallare l'appartenenza a una religione viene associato a
uno sgradevole proselitismo e a culti fanatici come il millenaristico
Aum Shinriky., il cui famigerato attentato con il gas sarin nella
metropolitana di Tokyo nel 1995 continua a perseguitare l'immaginario
collettivo. Anche se, stando al sondaggio World values, solo lf11,8
per cento degli intervistati giapponesi si definiva appartenente a
una religione, il 40,8 per cento degli stessi intervistati dichiarava
di credere in Dio (o negli dei). Analogamente, nello studio che ho
condotto l'anno scorso, solo il 10 per cento dei giapponesi si
definiva religioso, ma il 43,5 per cento conveniva che esiste un
regno spirituale al di la di quello fisico, il 30,2 per cento
sosteneva che esistono esseri spirituali (come gli angeli e i
demoni), e il 36,5 per cento credeva che esiste una qualche forma di
vita dopo la morte. Questi risultati indicano che per i giapponesi
dichiararsi di una tradizione religiosa non impedisce di seguire riti
diversi e che la fede personale non viene presa in considerazione
dalle statistiche ufficiali sull'appartenenza religiosa. Eppure
sarebbe un errore interpretare questi risultati come una
dimostrazione del fatto che in Giappone la forte fede religiosa e
centrale per le pratiche religiose. A differenza degli Stati Uniti,
dove il 48,8 per cento della popolazione ha dichiarato che Dio è
molto importante nella sua vita, questa percentuale scende al 6,1 per
cento in Giappone. Una fede solida, deduco, non è un elemento
essenziale della religione in questo paese. Piuttosto, e una
caratteristica delle religioni monoteistiche dominanti in occidente.
In molte società non è necessario credere nel soprannaturale perchè
questo e considerato una verità evidente di per se oppure, come nel
caso del Giappone, riceve molta meno attenzione della pratica. Una
fede forte non è una componente necessaria della religione. Dopo il
misogi di Kikonai, il mio gruppo di ricerca e io incontriamo i
quattro giovani uomini a una cena per festeggiare la ifne della
cerimonia. Gli chiediamo cosa pensano dell'esperienza. Non spiegano
la loro partecipazione in termini di fede o devozione religiosa, ma
parlano di rispetto per le tradizioni, vincoli sociali, obblighi e
possibili benedizioni per la comunità. Analogamente, quando gli
chiedo del ruolo della celebrazione come rito di passaggio (chi lo fa
non deve essere sposato), nessuno di loro lo ritiene particolarmente
significativo. Uno scherza dicendo che la sua partecipazione al rito
difficilmente attirerà le donne di Tokyo, dove si è trasferito per
lavoro.
Altari
casalinghi
La
distanza tra le pratiche religiose giapponesi e una visione della
religione basata sulla fede emerge di nuovo quando un illustre
professore statunitense di psicologia, in visita nel mio laboratorio
in Giappone, si trova a constatare la coesistenza nelle case dei
giapponesi di altari buddisti e shintoisti. Molte famiglie hanno in
casa sia un altare buddista per onorare i parenti scomparsi
(butsudan) sia un altare shintoista, chiamato mensola degli dei
(kamidana), scontata dalla maggior parte dei giapponesi, ma può
colpire chi ha un retroterra religioso più esclusivo. Dopo aver
saputo di questa pratica, il professore si rivolge a un collega
giapponese e gli chiede se anche lui ha due altari a casa sua. Sì,
nella casa di famiglia, risponde l'altro. Il professore chiede
stupito in quale dei due sistemi quello creda veramente. Il mio
collega giapponese e perplesso. Nessuno dei due, ribatte, e poi
chiarisce: O forse entrambi!. Non si è mai chiesto se crede negli
altari, spiega. Che nel contesto religioso giapponese la pratica sia
più importante della fede e sottolineato anche in Practically
religious (Praticamente religiosi), un libro del 1998 di Reader e
George Tanabe, un altro studioso di religione giapponese. La tesi
centrale degli autori e che la religione giapponese non consiste
tanto nell'abbracciare credenze o tradizioni specifiche per ottenere
la salvezza dopo la morte, ma piuttosto e orientata a ottenere
benefici pratici nella vita presente (genze riyaku) grazie allo
svolgimento di varie attività come la visita a santuari e templi,
l'acquisto di amuleti e portafortuna e le preghiere.
Vantaggi
garantiti
Le
preghiere che procurano la guarigione e assicurano fortuna o altri
benefici sono frequenti in tutti i sistemi religiosi, ma Reader e
Tanabe sostengono che in Giappone sono al centro del mondo religioso
e rappresentano la religione comune. Queste cerimonie terrene sono
sostenute da santuari e templi che si fanno pubblicità in base ai
vantaggi che possono garantire. Alcuni promettono di soddisfare
qualunque desiderio, dal successo in amore al superamento degli esami
passando per obiettivi più prosaici come curare le emorroidi o
mantenere una buona igiene orale. A volte si possono generare
tensioni, quando le pratiche sembrano contraddire il messaggio
spirituale di rinuncia, ma questa ambiguità e generalmente
tollerata. Basta pensare, per esempio, che sempre più sacerdoti
shintoisti e buddisti in Giappone si sposano. Contrariamente
all'immagine diffusa nel mondo occidentale, secondo cui la religione
giapponese sarebbe popolata di asceti che meditano sulle montagne, le
sale di meditazione sono spesso assenti nei templi e nei santuari. I
sacerdoti invece sono molto impegnati a fornire vari servizi
religiosi a pagamento. Di fatto, il carattere potenzialmente lucroso
dei funerali buddisti ha contribuito a generare il sospetto che molti
sacerdoti siano interessati soprattutto ad accumulare ricchezze.
L'intreccio di interessi terreni e spirituali non e una
caratteristica esclusiva del Giappone, naturalmente. Ma ci sono
alcune chiare discrepanze tra la religione del paese e le tradizioni
monoteistiche occidentali. Allora la parola religione può descrivere
quello che troviamo in Giappone? La risposta è sì, ma con
un'importante precisazione: perchè il concetto di religione rimanga
un'utile categoria interculturale dev'essere spogliato dei suoi
presupposti abramitici e messo in relazione con una serie di idee e
tradizioni che non si basino solo su credenze sovrannaturali, ma
anche su pratiche come rituali e feste. Alcuni dissentono da questa
tesi. Lo studioso di scienza delle religioni Jason Ananda Josephson,
del Williams college in Massachusetts, per esempio, mi spiega che
religione è un termine fondamentalmente eurocentrico che funziona
sempre, per quanto ben camuffato, per descrivere una somiglianza
percepita con il cristianesimo europeo. Josephson ha elaborato questo
punto di vista nel suo acclamato libro The invention of religion in
Japan (L'invenzione della religione in Giappone, 2012), che illustra
in dettaglio i negoziati e le lotte politiche che ci furono nel
periodo Meiji (1868-1915) per stabilire cosa fosse la religione.
Josephson sottolinea che l'attuale traduzione della parola religione
in giapponese . sh.ky. . è un neologismo del Meiji, che trasformò
le cose classificate con questo termine e le cose che ne furono
escluse, e spiega che per lui un altro grande problema del termine
religione e che ha una molteplicità di significati incompatibili.
Ian Reader mi dice che, malgrado la sua ammirazione per il lavoro di
Josephson, non e assolutamente d'accordo con l'idea che dovremmo
buttare a mare un termine che in quel contesto ha sviluppato una
serie di significati solo perchè forse è stato coniato nella metà
dell'ottocento. Mi spiega anche che in Giappone esiste una tradizione
intellettuale e politica che dà peso alla nozione di religione come
categoria e questo dimostra che la religione non è una qualche
struttura occidentale imposta arbitrariamente da potenze di tipo
coloniale. Reader aggiunge che il termine può anche essere vago, ma
a suo giudizio serve come utile cornice di discussione e
interpretazione per gli altri, e gli consente di confrontarsi con
studiosi che affrontano problemi simili in altri paesi. Come
antropologo cognitivo che lavora su ampi progetti interdisciplinari e
interculturali, possibili solo perchè viene usata una terminologia
che include una definizione di religione ricca di sfumature, non
posso che essere d'accordo.
Una
famiglia di concetti
La
religione è una categoria che non è sempre e ovunque chiaramente
distinguibile da altre sfere della vita. Ed è anche vero che ciò
che chiamiamo “religione” varia a seconda dell’epoca e del
luogo. Ma questo non rende il termine semanticamente incoerente, e il
suo uso moderno non deve necessariamente restare ancorato agli usi
del passato. Le grandi teorie di una volta sono fallite perché
concepivano la religione come un fenomeno monolitico che si evolveva
linearmente nel tempo. Gli approcci moderni non devono
necessariamente fare propri questi presupposti. Piuttosto, come
avviene con le definizioni di religione attualmente in uso nel campo
della scienza cognitiva della religione, riconosciamo che la
religione non attiene a una singola cosa, ma a una famiglia di
concetti correlati che servono a individuare un campo d’indagine
significativo e circoscritto. I motivi per abbandonare il termine
“religione” a causa della sua implicita vaghezza non sono più di
quelli per rifiutare altri termini generici, come “politica” o
“parentela”. In ultima analisi, dobbiamo rinunciare a certe
minuzie accademiche per tornare a studiare ciò che vediamo nel mondo
mettendo all’opera i nostri – sempre imperfetti – strumenti
analitici.
Ci
sono santuari e templi che si fanno pubblicità in base ai vantaggi
che possono garantire, dal successo in amore alla cura delle
emorroidi .
L’AUTORE
Christopher Kavanagh è un antropologo dell’Università di Oxford
specializzato in religioni dell’Asia orientale.