domenica 20 novembre 2016

Internazionale 19.10.2016
Islam arcobaleno
di Brian Whitaker, The Guardian, Regno Unito

Secondo la propaganda ufficiale, nei paesi mediorientali i gay non esistono.
È solo per questo che leggi estremamente repressive sono applicate di rado
e il problema principale è l’atteggiamento ostile della famiglia e della società
Quando nel 2015 la corte suprema degli Stati Uniti si è pronunciata a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso, la Casa Bianca ha accolto la decisione con luci arcobaleno (simbolo della comunità gay e transgender) e tante persone hanno festeggiato aggiungendo quei colori ai loro profili di Facebook. La sentenza invece ha allarmato l’Arabia Saudita e l’ha messa in guardia su un pericolo di cui non si era resa conto. La prima vittima è stata la scuola Talee al Noor di Riyadh, che per caso aveva la balaustra del tetto dipinta con i colori dell’arcobaleno. Secondo quanto riferito dalla polizia religiosa del regno, la scuola ha ricevuto una multa di 100mila riyal (24mila euro) per aver esposto “il simbolo dell’omosessualità” sull’edificio. Uno degli amministratori è finito in prigione e la balaustra incriminata è stata subito ridipinta per abbinarla al colore blu di un cielo senza arcobaleno. Il caso della scuola di Riyadh mostra come i progressi raggiunti in una parte del mondo possano avere l’effetto contrario in un’altra, e serve a ricordare che ci sono luoghi dove il legame tra l’arcobaleno e i diritti della comunità lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) è una novità o deve ancora essere scoperto. Pochi anni fa in Afghanistan andava di moda decorare le automobili con adesivi arcobaleno, forniti da fabbriche cinesi più che felici di venderli. La moda si è bruscamente interrotta quando l’agenzia di stampa afgana Pajhwok ha spiegato che quella moda poteva generare dei malintesi. Su internet si vendono copie del “Corano arcobaleno”: un’inconsapevole edizione gay del libro sacro con le pagine di tutti i colori, raccomandata come “regalo ideale per i musulmani”. Non è come sembra. Tuttavia questo fraintendimento interculturale ha due facce. In Egitto i turisti occidentali spesso restano sorpresi quando vedono due uomini, a volte anche soldati in uniforme, che si tengono per mano in strada. In Libano ci sono uomini eterosessuali che passano ore ad agghindarsi e in Afghanistan i guerrieri si truccano gli occhi. Non significa quello che si potrebbe immaginare, ma è anche meno sorprendente di quanto può sembrare. La segregazione di genere, che raggiunge livelli estremi nei paesi musulmani più conservatori, incoraggia comportamenti omosociali, cioè di vicinanza tra persone dello stesso sesso, perché crea una situazione in cui gli uomini si sentono più a loro agio in presenza di altri uomini, e in cui posare la mano sul ginocchio di un altro uomo è un segno di amicizia, non un invito al sesso. Inoltre in questi paesi gli uomini si abbracciano e si baciano molto e, secondo un ex direttore della commissione per le fatwa dell’università di Al Azhar, in Egitto, non c’è niente di male in un bacio tra persone dello stesso sesso, purché non ci sia “alcuna possibilità di tentazione”. In generale la società musulmana è ancora fortemente patriarcale. Il patriarcato, per sua stessa natura, esalta la mascolinità. Non è peccato apprezzare la bellezza maschile. Nella visione coranica del paradiso non ci sono solo 72 ragazze vergini servizievoli, ma anche bellissimi ragazzi che offrono un’infinità di bevande analcoliche. Ovviamente le relazioni tra persone dello stesso sesso non sono solo platoniche. In passato le società musulmane hanno spesso riconosciuto i rapporti omosessuali, tollerandoli in qualche misura, anche se non approvandoli. Nell’ottocento e nel novecento gli uomini perseguitati per la loro sessualità in Europa trovavano spesso rifugio in Marocco e, molto prima che in occidente si fantasticasse sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, nelle remote oasi egiziane di Siwa le relazioni tra uomini erano riconosciute e celebrate con una cerimonia. Sono diventate oggetto di scherno per la presunta omosessualità degli abitanti. Una di queste è Idlib, in Siria, un’altra è Qazvin, in Iran. Secondo un’antica storiella afgana, gli uccelli volano su Kandahar con un’ala sotto la coda, per precauzione. A un altro livello, però, c’è poco da scherzare. Oggi in Iran il lavat (la sodomia) è un reato capitale e spesso è punito con la morte. Anche in Arabia Saudita, Sudan, Yemen e Mauritania la sodomia è punita con la pena di morte, ma non si hanno notizie di esecuzioni da almeno un decennio. In altri paesi arabi, come Algeria, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Oman, Qatar, Somalia, Tunisia e Siria, la pena è il carcere, che in Bahrein può arrivare fino a dieci anni. Nei paesi in cui non c’è una legge specifica contro l’omosessualità, i gay possono comunque essere perseguiti in base ad altre norme. In Egitto, per esempio, si ricorre spesso a una vecchia legge contro la “dissolutezza”. Queste leggi hanno un effetto devastante sulla vita di chi ha la sfortuna di essere colto in flagrante. Tuttavia, nonostante sporadici giri di vite, in genere le autorità non danno la caccia ai gay. Le statistiche sono scarse, ma il numero degli arresti è inferiore a quello raggiunto durante l’ondata di omofobia nel Regno Unito negli anni cinquanta. Nel 1952 nel Regno Unito ci furono 670 procedimenti penali per sodomia, 3.087 per tentata sodomia o abuso sessuale e 1.686 per atti osceni. Il problema è che, anche se non sono applicate con vigore, queste leggi rappresentano la disapprovazione ufficiale nei confronti dell’omosessualità e, abbinate alle invettive dei religiosi, legittimano la discriminazione quotidiana e possono anche fornire un pretesto a chi vuole fare giustizia da sé. Anni prima che il gruppo Stato islamico cominciasse a lanciare presunti gay giù dai tetti, altri gruppi in Iraq aggredivano uomini “effeminati”, a volte uccidendoli lentamente con iniezioni di colla nell’ano. Una decisione difficile Il numero relativamente basso di azioni penali si spiega in parte con la narrazione ufficiale secondo cui nei paesi musulmani non c’è una presenza rilevante di gay. L’omosessualità è considerata principalmente un fenomeno occidentale, e un gran numero di arresti metterebbe in discussione questa convinzione. Alcuni dei regimi arabi più brutali, come l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria sotto la famiglia Assad, hanno mostrato scarso interesse per i gay, probabilmente perché avevano altro di cui occuparsi. Tuttavia ci sono periodi di crociate morali e momenti in cui a un governo fa comodo scaricare i mali del paese su chi è meno in grado di difendersi. È quello che ultimamente sta facendo il regime di Abdel Fattah al Sisi in Egitto. L’attivista per i diritti civili Scott Long sul suo blog documenta in dettaglio gli attacchi di Al Sisi contro le minoranze sessuali. I gay non sono gli unici, il regime sta anche lavorando a una strategia per “sradicare” l’ateismo. Nei paesi arabi gli arresti riguardano spesso gruppi di uomini che partecipano a feste (a volte descritte come “matrimoni” gay) o che frequentano gli hammam. Individui e coppie accusati di pratiche sessuali illegali possono essere arrestati per varie ragioni, comprese alcune che non sono direttamente legate all’omosessualità. Sono stati segnalati anche casi di uomini sospettati di essere gay e arrestati dalla polizia per ottenere denaro o informazioni. L’effetto sulla vita di chi viene arrestato è catastrofico, ma la legge non è un grande deterrente e chi è discreto sulla propria sessualità non corre grandi rischi di finire in carcere. Per la maggior parte delle persone gay, lesbiche o transgender, il problema più grave è l’atteggiamento della famiglia e della società. Una questione che riguarda tutti i gay, ovunque, a un certo punto della loro vita è il coming out, la rivelazione del proprio orientamento sessuale. Per i musulmani può essere una decisione particolarmente difficile. Nei paesi islamici la pressione a sposarsi è molto più forte che nella maggior parte dei paesi occidentali. Restare single di solito è considerato un fallimento sociale e una volta che i giovani hanno completato gli studi organizzare il loro matrimonio è una priorità per la famiglia. Le famiglie più tradizionali s’impegnano nella ricerca di un partner e i matrimoni combinati sono ancora molto comuni. Per chi non è attratto dal sesso opposto è un grande problema. Alcuni riescono a rinviarlo prolungando gli studi o andando all’estero. Altri cedono alle pressioni e accettano un matrimonio indesiderato. I più fortunati trovano un compagno dell’altro sesso gay o lesbica e portano avanti un matrimonio finto. Altri ancora stringono i denti e decidono di fare coming out. La reazione delle famiglie dipende da diversi fattori, tra cui la classe sociale e il livello d’istruzione. Nei casi estremi, il coming out porta all’ostracismo o perfino ad aggressioni. La reazione meno dura è cercare una “cura”: attraverso la religione o, nelle famiglie più ricche, ricorrendo a costose e inutili terapie psicologiche. Dopo la strage di Orlando – avvenuta a giugno nella città della Florida, quando un cittadino statunitense di origini afgane ha ucciso 49 persone in un locale frequentato da gay – qualcuno ha osservato che i paesi dove la sodomia è punita con la morte si giustificano invocando la legge islamica. Ma dare tutta la colpa all’islam è una semplificazione. In Egitto e in Libano, paesi prevalentemente musulmani con una cospicua popolazione cristiana, l’atteggiamento dei cristiani verso l’omosessualità non è molto diverso da quello dei musulmani. Inoltre, è appurato che il profeta Maometto non ha mai indicato alcuna punizione per l’omosessualità. I musulmani hanno cominciato a discutere delle possibili punizioni alcuni anni dopo la sua morte. Per i musulmani, come per i cristiani, la condanna dell’omosessualità si basa principalmente sulla storia della punizione che Dio inflisse a Sodoma e Gomorra, narrata sia nel Corano sia nel Vecchio testamento. La versione della Bibbia e quella del Corano sono molto simili. La differenza sta nel fatto che nel corso degli ultimi sessant’anni molti cristiani hanno riletto la storia con un altro sguardo e sono arrivati
alla conclusione che si riferisce allo stupro maschile e al maltrattamento degli stranieri, più che al sesso consensuale tra uomini. Finora invece sono stati pochi i musulmani disposti a rivedere la storia. La questione principale è che per quanto le parole del testo sacro siano invariabili e immodificabili, sono pur sempre soggette alle interpretazioni umane, che possono variare a seconda dei tempi, dei luoghi e delle situazioni sociali. Ovviamente questo è un aspetto che i fondamentalisti, sia musulmani sia cristiani, preferiscono negare. Anche se oggi le società musulmane possono essere descritte come generalmente omofobiche, è un errore considerare l’omofobia un problema a sé stante. Invece fa parte di una sindrome in cui i diritti degli individui sono inglobati negli interessi percepiti della comunità, spesso con l’obiettivo di mantenere un’identità “islamica”. Il risultato è che la società attribuisce un grande valore alla conformità e che le espressioni d’individualità sono disapprovate. Si pone una forte enfasi sulla difesa delle norme sociali e sul mantenimento delle apparenze, se non in privato almeno in pubblico. Il ruolo del genere Il sistema patriarcale gioca un ruolo rilevante anche in questo, con una precisa definizione dei ruoli degli uomini e delle donne. I maschi omosessuali, in particolar modo quelli che hanno tratti femminili, possono essere considerati un affronto all’ordine sociale. Gli uomini “mascolini” che hanno rapporti sessuali con altri uomini sono una questione un po’ diversa. Anche se la legge dello stato e quella tradizionale islamica considerano la penetrazione anale passiva e attiva ugualmente illecite, l’opinione popolare verso il partner attivo tende a essere meno ostile: resta un uomo che fa quello che per natura fanno gli uomini, anche se non con una donna. Il partner passivo invece è guardato con disgusto: si comporta come una donna e si dà per scontato che non possa farlo per piacere, quindi si prostituisce. I rapporti lesbici passano per lo più inosservati, probabilmente perché in una società che privilegia i maschi, gli uomini non ci prestano molta attenzione o non la considerano una cosa significativa. La tradizionale concezione dei ruoli di genere crea problemi particolari alle persone transgender, soprattutto in paesi dove la segregazione dei sessi è applicata più rigorosamente e il travestitismo è criminalizzato. Nel 2007, sotto la pressione dei parlamentari islamisti, il Kuwait ha emendato il codice penale in modo che chiunque “imiti il sesso opposto” rischia fino a un anno di carcere o una multa di mille dinari (circa tremila euro). Nel giro di un paio di settimane almeno quattordici persone finirono in carcere per il nuovo reato. Siccome in Kuwait non c’è una procedura legale per registrare il cambio di sesso, anche le persone transgender che si sono sottoposte all’intervento chirurgico rischiano l’arresto per travestitismo. Transgender è un termine ampio che include persone intersessuali (il cui sesso biologico non è chiaro o è stato mal attribuito alla nascita), chi ha una disforia di genere (si sente un uomo intrappolato nel corpo di una donna o viceversa) oppure chi semplicemente prova piacere o soddisfazione nel travestitismo. L’islam ha una certa casistica in quest’ambito, che per certi aspetti lo rende accomodante e per altri no. I resoconti sulla vita del profeta rivelano che aveva familiarità con tre tipi di diversità di genere, a parte il dualismo maschio-femmina. Gli eunuchi (uomini castrati) e i mukhannathun (uomini effeminati) non erano sottoposti alle regole della segregazione di genere: potevano entrare nei ginecei, presumibilmente perché si riteneva che non ci fosse il pericolo di cattive condotte sessuali. Gli eunuchi spesso acquisivano posizioni influenti amministrando le case delle ricche famiglie musulmane. I mukhannathun erano meno rispettabili e avevano la reputazione di frivoli e loschi, anche se pare che fossero tollerati nei primi anni dell’islam. Non sembra che fossero associati all’omosessualità durante la vita del profeta, ma lo furono più tardi. Il terzo gruppo, i khuntha, che oggi sarebbero chiamati intersessuali, si è rivelato più complesso dal punto di vista teologico. L’affermazione contenuta nel Corano che Dio “ha creato ogni cosa in coppia” è alla base di una dottrina islamica secondo cui ognuno è o maschio o femmina: non ci può essere una via di mezzo. Questo ha sollevato la questione di cosa fare con i bambini nati con genitali ambigui, considerato che, secondo la dottrina, non potevano essere sessualmente neutri. I giuristi islamici hanno risolto il dilemma concludendo che questi bambini devono avere un sesso “nascosto”, che aspetta di essere scoperto. Il problema era come scoprirlo e i giuristi hanno concepito regole elaborate per farlo. A questo proposito, si è rivelata particolarmente utile una frase attribuita al profeta sull’urina e sulle diverse regole di eredità per gli uomini e per le donne. Il profeta avrebbe affermato che l’eredità è determinata dal “luogo della minzione” (mabal in arabo). Così nell’anno mille lo studioso della scuola hanaita Al Sarakhsi spiegò che una persona che urina “dal mabal degli uomini” dovrebbe essere considerata un maschio e chi lo fa “dal mabal delle donne” una femmina. Oggi la rilevanza di queste norme sta nel fatto che giustificano gli interventi chirurgici per cambiare sesso, purché lo scopo sia scoprire il sesso “nascosto” della persona. È su queste basi che le operazioni per cambiare sesso sono eseguite in vari paesi musulmani, tra cui l’Arabia Saudita e l’Egitto. Intervento forzato Ma se possono giustificare un intervento nei casi d’intersessualità, è molto più difficile applicare queste norme nei casi di disforia di genere. Negli anni ottanta in Egitto ci fu una controversia che coinvolse uno studente di diciannove anni a cui era stata diagnosticata una disforia di genere (o “ermafroditismo psicologico”, come lo definì un medico all’epoca) e si era sottoposto a un intervento per diventare donna. Il caso divenne di dominio pubblico quando l’università Al Azhar rifiutò di riammetterlo, sia come studente donna sia come uomo. Per molti il concetto di disforia di genere era difficile da capire e per altri si trattava di un uomo gay che cercava di raggirare il sistema. Il caso si concluse con una fatwa di Muhammad Tantawi, il gran muftì d’Egitto, che è ancora citata nei tribunali di tutta la regione. In linea con l’ortodossia islamica, Tantawi affermò che l’intervento chirurgico era lecito “al fine di rivelare la parte nascosta degli organi maschili o femminili”, ma aggiunse che non era ammissibile “all’unico scopo di soddisfare il desiderio di cambiare sesso da donna a uomo o viceversa”. In sostanza, la questione dell’intervento chirurgico nei casi di disforia sessuale è rimasta irrisolta, consentendo così sia ai sostenitori sia ai detrattori di interpretare la fawta come preferiscono. Tuttavia nella pratica sottoporsi all’intervento non è l’ostacolo più grande: chi può permetterselo di solito va all’estero. È più complicato ottenere l’accettazione sociale e un riconoscimento ufficiale del cambio di sesso. Da un punto di vista teologico, l’Iran sciita sembra avere meno problemi con la disforia di genere rispetto ai paesi sunniti. Oggi in Iran si eseguono più operazioni per cambiare sesso che in qualunque altro paese, a parte la Thailandia. A un primo sguardo l’approccio iraniano al cambio di sesso può sembrare sorprendentemente liberale, ma in realtà ha un lato oscuro. Una preoccupazione è che le persone possano subire pressioni per sottoporsi a operazioni che in realtà non vogliono fare. Ci sono tante persone transgender che desiderano semplicemente essere accettate così come sono, senza interventi chirurgici, e il sistema iraniano non se ne occupa. Inoltre la differenza tra essere transgender e gay non è pienamente compresa in Iran, neanche dai medici, e ci sono stati casi di omosessuali spinti a sottoporsi all’intervento per “regolarizzare” il loro status legale ed evitare il rischio della pena capitale. Un nuovo attivismo In Medio Oriente gli attivisti per i diritti degli omosessuali hanno cominciato a organizzarsi all’inizio degli anni duemila. Nel 2002 un gruppo di donne palestinesi ha fondato Aswat (voci), a cui in seguito ha aderito un altro gruppo palestinese, Al Qaws (l’arcobaleno). Entrambi hanno sede in Israele, ma sono attivi anche in Palestina. Intorno al 2004 un gruppo di attivisti libanesi ha fondato Helem, la prima organizzazione lgbt a operare apertamente in un paese arabo. Altri gruppi sono spuntati in diversi paesi, spesso scomparendo abbastanza velocemente. Anche i siti e i blog arabi lgbt di solito non durano molto. My Kali, una rivista giordana che ha l’obiettivo di “parlare di omofobia e di transfobia e aiutare i giovani a sfidare il sistema binario convenzionale del genere nel mondo arabo”, esce regolarmente dal 2007. Finora nessuno ha tentato di organizzare un gay pride in un paese arabo, anche se a Istanbul si svolgono cortei dal 2003, tra polemiche e contestazioni. Tuttavia in Libano e altrove si sono svolte diverse iniziative legate a Idahot, la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, che è tollerata in molti paesi. Le organizzazioni non governative che lavorano nei paesi arabi spesso devono affrontare restrizioni governative, e quelle che si occupano dei diritti della comunità lgbt hanno anche il problema dello stigma sociale. Perciò alcuni gruppi pongono la questione in modo indiretto, focalizzando l’attenzione sulla salute sessuale e sulla prevenzione dell’aids o facendo campagne per i “diritti individuali”. I social network hanno creato spazi per un attivismo più informale, che sembra aver avuto successo in un paio di casi. Uno di questi si è veriicato nel 2014, quando la polizia e un canale tv hanno collaborato per fare un blitz in un hammam del Cairo. Il presentatore
del programma, che aveva fatto riferimento al “segreto dietro la diffusione dell’aids in Egitto” è stato fortemente criticato in rete e in seguito ha avuto problemi con la giustizia. L’altro caso risale all’anno scorso, quando le autorità di Amman, in Giordania, hanno annullato all’ultimo minuto un concerto dei Mashrou’ Leila, un popolare gruppo rock libanese con un cantante dichiaratamente gay. La protesta sui social network è stata così ampia che le autorità sono dovute tornare sui loro passi ventiquattr’ore dopo, quando però era troppo tardi per fare il concerto così com’era stato pianificato originariamente. Negli ambienti religiosi islamici le posizioni predominanti sull’omosessualità sono state sfidate occasionalmente. Ci sono un paio di moschee aperte ai gay e alcuni imam dichiaratamente gay: Muhsin Hendricks in Sudafrica, Daayiee Abdullah negli Stati Uniti e il franco-algerino Ludovic-Mohamed Zahed. Queste eccezioni esistono tutte fuori dal mondo arabo e non nelle roccaforti musulmane, ma è nella diaspora che l’islam è costretto a confrontarsi con la realtà piuttosto che nei paesi dove è tutelato e privilegiato. Un esempio di come potrebbero cambiare le cose è una vicenda avvenuta nel 2007 nel Regno Unito a proposito della Sexual orientation regulations, una misura per evitare che le imprese discriminassero i gay. Il Consiglio musulmano del Regno Unito si è ritrovato con riluttanza a sostenere la legge insieme ai difensori dei diritti della comunità lgbt, dato che anche i musulmani britannici sono una minoranza che rischia di essere discriminata. Sono piccoli progressi, ma quindici anni fa non ce n’erano affatto. Non hanno prodotto risultati tangibili nel senso di persuadere i governi a modificare le leggi, e su questo fronte la strada è ancora lunga. Ma quello che sono riusciti a fare è rendere difficile affermare che non esistono musulmani lgbt. Hanno stabilito un grado di visibilità che, sebbene ancora limitato, è rilevante, perché la visibilità è il primo passo per ottenere i diritti, e senza non c’è alcuna speranza di riuscirci. u sg

The Washington Post, Stati Uniti
Da sapere I dieci paesi in cui l’omosessualità può essere punita con la morte.
Afghanistan
L’articolo 130 della costituzione consente di fare ricorso alla sharia, che prevede la pena di morte per gli omosessuali. Dalla cacciata dei taliban non sono state eseguite condanne. Arabia Saudita
Un uomo sposato o un non musulmano che compie atti di sodomia con un musulmano può essere lapidato.
Emirati Arabi Uniti
Ci sono opinioni diverse sulla pena prevista dalla legge federale: per alcuni prevede la pena di morte in caso di rapporti omosessuali consensuali, per altri solo in caso di stupro. Iran I rapporti omosessuali tra uomini possono essere puniti con la morte. Gli uomini colpevoli di reati minori, come baciarsi, sono frustati. Le donne sono fustigate.
Mauritania
In base a una legge del 1984 i gay possono essere lapidati a morte, ma finora non sono state eseguite condanne. Per le lesbiche è previsto il carcere.
Nigeria
La legge federale punisce il comportamento omosessuale con il carcere, ma diversi stati prevedono la condanna a morte per gli uomini.
Qatar
I musulmani possono essere condannati a morte per rapporti extramatrimoniali, a prescindere dall’orientamento sessuale.
Somalia
Il codice penale prevede il carcere, ma in alcune regioni del sud i tribunali islamici hanno imposto la sharia e la pena di morte.
Sudan
Chi è ritenuto colpevole di sodomia per la terza volta può essere condannato a morte. Per la prima o per la seconda volta la pena prevista è la fustigazione o il carcere.
Yemen
Gli uomini sposati colpevoli di rapporti omosessuali sono lapidati a morte. Gli uomini non sposati sono condannati alla fustigazione o a un anno di carcere. La pena per le donne è fino a sette anni di carcere. –
Max Bearak e Darla Cameron Reato capitale
L’AUTORE Brian Whitaker è stato editor per il Medio Oriente del Guardian. In Italia ha pubblicato L’amore che non si può dire (Isbn 2008) e Arabi senza dio (Corpo60 2015).