lunedì 14 novembre 2016

Internazionale 12.10.2016
I geni non bastano
di Steven Rose, London Review of Books, Regno Unito.
Per anni si è pensato che le caratteristiche ereditarie degli esseri viventi fossero determinate solo dal dna. Ma le ultime ricerche epigenetiche suggeriscono che i fattori ambientali possono avere un ruolo fondamentale

La biologia moderna, quando fu concepita nel seicento, ereditò una convinzione incrollabile, due misteri e una sfortunata scelta di tempi. La convinzione riguardava l’immutabilità delle specie, il fatto che ognuna avesse caratteristiche essenziali, inalterabili, un principio che si può far risalire come minimo all’epoca di Aristotele. Il primo mistero riguardava quello che distingue la vita dalla morte, e il secondo il processo attraverso il quale da un uovo fecondato si arriva a un organismo perfettamente sviluppato, sia esso una gallina o un essere umano. Il primo mistero fu risolto con una tautologia: le creature sono animate anziché inanimate perché sono pervase dal soffio vitale. Il secondo, quello dell’uovo e della gallina, rimase oggetto di disputa: la forma finale dell’organismo adulto è in qualche modo già presente in miniatura nell’ovulo o nello spermatozoo (preformismo) o si sviluppa per stadi a partire da una massa originaria informe (epigenesi)? Nel corso dei secoli queste due domande sono state riformulate varie volte, ma sono ancora alla base delle scienze della vita. La sfortunata scelta di tempi, che rendeva più difficile rispondere a certe domande, era il fatto che la biologia si era sviluppata dopo la fisica. La fisica, soprattutto quella newtoniana, era già considerata la scienza moderna ideale, e i primi biologi cercavano di comprendere i processi vitali per analogia con i sistemi fisici e meccanici: il cuore come una pompa, il cervello e i nervi prima come sistemi idraulici, poi come linee telefoniche e infine come computer. Il primo a proporre la metafora idraulica fu Cartesio all’inizio del seicento. Per il filosofo francese gli organismi viventi erano semplici macchine, ma gli esseri umani si distinguevano dagli altri perché possedevano un’anima, che comunicava con il corpo attraverso un piccolo organo al centro del cervello, la ghiandola pineale. Un secolo dopo, il fisico, filosofo e autodichiarato “materialista meccanico” Julien Ofray de La Mettrie contestò la tesi dualistica di Cartesio in L’homme machine, sostenendo che i processi mentali non sono altro che manifestazioni del funzionamento del cervello. All’epoca questa teoria era considerata eretica, ma oggi è condivisa da molti neuroscienziati. Il conflitto tra i meccanicisti e i sempre meno numerosi vitalisti andò avanti per tutto l’ottocento. La teoria della selezione naturale di Charles Darwin mise fine a qualsiasi residua convinzione che le specie fossero immutabili. La sua spiegazione dell’evoluzione era completamente materialistica e si basava su tre concetti fondamentali: il simile procrea il simile, con qualche piccola differenza; tutte le creature fanno più figli di quelli che possono sopravvivere fino all’età adulta; e “i più idonei”, quelli che si adattano meglio all’ambiente, hanno più probabilità di sopravvivere e riprodursi a loro volta. Quindi le specie gradualmente cambiano – si evolvono – nel corso del tempo. Questa è la selezione naturale. Programmi molecolari Ma Darwin non fu in grado di spiegare come quelle piccole differenze di idoneità potevano essere trasmesse alla prole. Avanzò una serie di ipotesi, come quella secondo cui ogni organo del corpo conteneva minuscole particelle (gemmule) che circolano nel sangue per poi concentrarsi nell’apparato riproduttivo. I suoi detrattori approfittarono di questa lacuna e preferirono credere che la formazione di una nuova specie potesse verificarsi solo con un grande balzo in avanti. Il monaco moravo Gregor Mendel, contemporaneo di Darwin ma a lui sconosciuto, scoprì il meccanismo che il padre dell’evoluzionismo non era riuscito a comprendere. Con una serie di studi, Mendel dimostrò che le caratteristiche delle piante di pisello venivano trasmesse da una generazione all’altra tramite quelli che chiamò “determinanti”. All’epoca la portata del suo lavoro non fu compresa appieno, ma intorno al 1900 i suoi risultati furono riscoperti e ripetuti da diversi scienziati, i cui esperimenti sulla riproduzione delle piante evidenziarono casi in cui si verificavano improvvisi cambiamenti di alcune caratteristiche, che potevano essere trasmessi alla generazione successiva. Chiamarono questi cambiamenti mutazioni, e i determinanti di Mendel furono denominati geni. Per molti decenni le mutazioni improvvise di Mendel e non la graduale selezione naturale di Darwin costituirono la spiegazione preferita dei cambiamenti evolutivi. Il preformismo rinacque sotto forma di genetica, che considerava lo sviluppo poco più che la realizzazione di un programma molecolare inscritto nei geni. Ma una corrente sotterranea continuò a opporsi a questo tipo di riduzionismo. Per i romantici, la quantificazione privava il mondo dei suoi tratti osservabili: colore, profumo, consistenza e forma. Era assurdo pensare che i disegni tracciati nell’aria da uno stormo di uccelli in volo o i rapidi e coordinati cambi di direzione di un banco di aringhe potessero essere ridotti al movimento di ogni singolo uccello o pesce. Il loro nemico per eccellenza era Newton, che William Blake rappresentò come uno scienziato che misura il mondo con un compasso. Negli anni trenta del novecento alcuni giovani biologi di Cambridge che si definivano “organicisti”, riuniti intorno all’embriologo Joseph Needham, fondarono il Theoretical biology club (Tbc) nel tentativo di superare la vecchia contrapposizione tra meccanicismo e vitalismo. Al congresso sulla storia della scienza e della tecnologia che si tenne a Londra nel 1931 rimasero colpiti dall’intervento della delegazione sovietica guidata da Nikolaj Bucharin, un protetto di Lenin che sarebbe stato epurato poco dopo. I sovietici respingevano l’idea di una progressiva e disinteressata ricerca della verità, sostenendo che la scienza è determinata dall’economia politica dominante in un dato periodo. Da questo punto di vista, il predominio del materialismo meccanicistico poteva essere considerato funzionale alle necessità del capitalismo durante la rapida industrializzazione dell’ottocento. Qualche anno dopo, quando la Dialettica della natura di Friedrich Engels fu pubblicata in inglese con un’introduzione del genetista J.B.S. Haldane, i ricercatori pensarono di avere finalmente trovato gli strumenti teorici di cui avevano bisogno. La vita non può esser ridotta a pure molecole, dicevano, ma per spiegarla non c’è bisogno di ricorrere a un principio vitale immateriale. Il mondo materiale è costituito da una moltitudine di entità e di processi a vari livelli di complessità. Ogni livello è governato da un insieme di princìpi organizzativi che dipendono da quelli che governano i livelli inferiori ma non possono essere ridotti a quelli. Le proprietà dell’acqua non possono essere dedotte da quelle dell’idrogeno e dell’ossigeno; il comportamento delle unità di base della vita, le cellule, non è semplicemente un aggregato delle proprietà delle proteine, dei lipidi o di qualsiasi altro dei loro componenti. A ogni livello di complessità, dalla molecola alla cellula, dall’organismo all’ecosistema e alla società, emergono nuove proprietà e nuovi rapporti organizzativi, ognuno dei quali ha la sua scienza. Soprattutto, sosteneva il Tbc, il mondo vivente è dinamico e autorganizzato: non dovrebbe essere visto tanto come un insieme di oggetti quanto di processi che interagiscono tra loro in modo dialettico. La biologia, a differenza della fisica, è una scienza storica, sosteneva Needham: lo stato attuale di qualunque sistema vivente può essere compreso solo in riferimento al suo passato recente (sviluppo) e lontano (evoluzione). Gli stessi organismi non sono statici ma si rigenerano continuamente, e continuano a esistere anche se tutte le molecole del corpo vengono scomposte e risintetizzate migliaia – a volte milioni – di volte ogni ora. Il Tbc cercava di riunificare tre scienze biologiche che si erano separate all’inizio del secolo: l’evoluzionismo, la genetica e l’embriologia (che poi sarebbe stata chiamata biologa dello sviluppo). Haldane e altri due biologi matematici, Ronald Fisher e Sewall Wright, coniugarono la genetica mendeliana e la selezione naturale in quella che poi sarebbe stata chiamata sintesi moderna o neodarwinismo, una teoria dell’evoluzione più ampia che sarebbe rimasta in auge per tutto il novecento. Secondo il neodarwinismo sono piccoli cambiamenti casuali dei geni a produrre quelle variazioni ereditabili nell’idoneità di un organismo su cui si basa la selezione naturale. Uscivano di scena le mutazioni rapide e tornava la gradualità. Gli organismi viventi erano considerati semplici veicoli della trasmissione genetica e l’evoluzione stessa veniva ridefinita come “un cambiamento nella frequenza dei geni all’interno di una popolazione”. Far andare d’accordo genetica e sviluppo era un compito più arduo. Fin dai tempi di Mendel la genetica era stata la scienza delle differenze, che cercava di spiegare perché alcuni piselli sono gialli e grinzosi e altri verdi e lisci, o perché una persona ha gli occhi azzurri e un’altra li ha color nocciola. La biologia dello sviluppo invece si basava sulle somiglianze, e si chiedeva, per esempio, perché gli esseri umani, nel loro percorso dall’ovulo fecondato all’adulto, sono in genere bilateralmente simmetrici, hanno due occhi e due mani che finiscono ciascuna con cinque dita. Una sintesi fu tentata da un altro componente del gruppo di Cambridge, il poliedrico biologo C.H. Waddington, che all’inizio degli anni quaranta coniò il termine epigenetica per definire lo studio delle “interazioni causali tra i geni e i loro prodotti che danno origine al fenotipo”. Fenotipo è una parola un po’ ambigua, ma indica più o meno l’insieme delle caratteristiche osservabili di un organismo vivente, dal livello molecolare e cellulare all’intero organismo e al suo comportamento. Richard Dawkins ne avrebbe poi esteso la definizione, affermando che la diga costruita da un castoro fa parte del suo fenotipo.
L’epigenetica cerca di spiegare come, a partire da un identico insieme di geni, le contingenze dello sviluppo possono portare a risultati diversi. Per illustrare questo concetto, Waddington immaginò un “paesaggio epigenetico” fatto di colline e vallate. Se mettiamo una palla in cima a una collina e le diamo una piccola spinta, saranno fluttuazioni casuali a determinare da che parte rotolerà. Waddington chiamò questo processo canalizzazione, anche se all’epoca era impossibile sapere su cosa si basasse concretamente quella metafora. Immaginava che le colline e le valli fossero modellate da corde che partivano da nodi (i geni) collocati sotto la superficie. Waddington si spinse anche oltre, ipotizzando che se un cambiamento fenotipico fortemente canalizzato si ripeteva generazione dopo generazione, prima o poi si sarebbe verificata una mutazione casuale che lo avrebbe assimilato nel genoma. Per dimostrarlo espose degli embrioni di drosoila all’etere, che le induce a sviluppare un secondo torace. Dopo una ventina di generazioni (le drosoile impiegano circa sette giorni per raggiungere la maturità sessuale, quindi gli esperimenti sono facili e veloci), gli insetti sviluppavano un secondo torace senza bisogno dell’etere: il doppio torace indotto epigeneticamente era entrato a far parte del loro genoma. A molti contemporanei di Waddington questa sembrava una nuova versione della peggiore eresia evoluzionistica, il lamarckismo, secondo cui le caratteristiche acquisite possono essere trasmesse. Sminuirono i risultati di Waddington sostenendo che erano il prodotto artificiale di condizioni di laboratorio estreme, irrilevanti nel mondo reale. Il Tbc chiese un finanziamento alla fondazione Rockefeller per avviare un istituto di biologia teoretica a Cambridge, ma Rockefeller preferì investire nel campo della biochimica, che lasciava presagire i futuri trioni della genetica molecolare. Durante la seconda guerra mondiale i componenti del gruppo furono coinvolti nella ricerca bellica, e l’epigenetica scomparve gradualmente. La delusione del genoma Negli anni cinquanta, quando Francis Crick e James Watson scoprirono la struttura del dna, tra i biologi (soprattutto quelli provenienti dalla fisica e dall’ingegneria come Crick) si diffuse la convinzione che quello che serviva era uno spietato riduzionismo. Fu subito chiaro che la struttura a elica del dna costituiva la forma chimica di un programma, un codice costituito dalle quattro sottounità o “basi” della molecola: adenina, citosina, guanina e timina, rappresentate dalle lettere A, C, G e T. Questo codice poteva dirigere lo sviluppo di un organismo, ed era anche un meccanismo di copiatura che permetteva di passare le informazioni da una generazione all’altra. A quanto pareva, la vita era calcolabile. Il trionfo del riduzionismo sembrava così certo che negli anni novanta alcuni ambiziosi biologi molecolari riuscirono a convincere i loro finanziatori, pubblici e privati, a imbarcarsi in un grande progetto per ricostruire la sequenza dei tre miliardi di A, C, G e T che costituiscono il genoma umano. Secondo i ricercatori le informazioni fornite dalla sequenza avrebbero completamente trasformato il nostro modo di vedere la medicina, e dato una forte spinta a un’economia anemica. Una volta avviato il progetto, i ricercatori fecero un sondaggio. Quanti geni – vale a dire, quante minisequenze di A, C, G e T che codificano specifiche proteine – avrebbero trovato nel genoma umano? In media le risposte indicavano circa centomila, più o meno quante sono le proteine nel nostro corpo. Ma alla fine si scoprì che i geni erano poco più di ventimila, più o meno gli stessi di un nematode lungo un millimetro. Ventimila geni per plasmare lo sviluppo di un embrione umano da ovulo fecondato a neonato, per codificare le centomila proteine, per determinare il destino dei 37mila miliardi di cellule del corpo umano. Questo numero smentiva l’ipotesi che ci fosse un gene per ogni particolare caratteristica umana, dal colore degli occhi al quoziente intellettivo all’orientamento sessuale, e vanificava la speranza che conoscendo la sequenza del genoma fosse possibile trovare cure su misura per le malattie complesse. Il problema sta nell’idea sbagliata che i geni siano “supermolecole” che dirigono le operazioni delle cellule in cui risiedono. In realtà il dna è una molecola piuttosto inerte, caratteristica che deve avere per fare da codice. Sono le cellule a fare tutto il lavoro. Gli enzimi cellulari leggono, modificano, tagliano, incollano, trascrivono e traducono segmenti di dna, in un lusso programmato durante lo sviluppo del feto, a seconda che le cellule siano destinate a diventare fegato o cervello, sangue o ossa. Nessun gene è isolato, tutti collaborano. Per produrre un unico fenotipo possono essere necessari molti geni (per esempio, è stato dimostrato che sulle malattie coronariche influiscono più di cinquanta varianti genetiche) e un singolo gene può influire su molti tratti fenotipici, a seconda delle cellule in cui è attivo. È in questo periodo di rapida crescita che gli organismi viventi sono più plastici, e reagiscono alle condizioni ambientali modificando i loro tratti fenotipici anatomici, biochimici, fisiologici o comportamentali. Questa è la canalizzazione epigenetica. I biologi molecolari dovevano poi scoprire i meccanismi attraverso i quali le cause esterne attivano e disattivano i geni. Questo implicava riconoscere l’importanza del fatto che il dna è protetto da un sottile strato di proteine (gli istoni), e che un frammento di questo strato deve scollarsi perché si possa leggere un particolare segmento di dna. I fattori ambientali influiscono su questo processo di scollamento, quindi sulla selezione dei geni da leggere. Una seconda importante scoperta è stata che durante lo sviluppo alcuni segmenti di dna vengono “marcati”: un frammento molecolare, un metile (H3), si lega a una delle basi del dna (di solito la citosina). La presenza del metile impedisce di leggere il dna, cioè disattiva il gene. Se il metile viene rimosso il gene si riattiva. Con il progresso dell’epigenetica probabilmente verranno scoperti molti altri meccanismi simili. L’ambiente in cui è immerso un embrione durante la fase di sviluppo non è immutabile. Nei mammiferi i livelli ormonali o la dieta seguita dalla femmina durante la gestazione influiscono sull’embrione e sul feto, che si adatta alle side ambientali aggiungendo o rimuovendo metili da specifiche regioni del dna, controllando così la direzione del suo sviluppo lungo l’una o l’altra delle valli del paesaggio epigenetico di Waddington. Inoltre ci sono sempre più prove che le marcature metiliche che compaiono sul dna durante lo sviluppo permangono e possono essere trasferite alla generazione successiva insieme ai loro effetti fenotipici. Anche se i loro meccanismi molecolari erano ignoti, questi fenomeni transgenerazionali sono noti da decenni, sono stati verificati in laboratorio sugli animali e osservati negli esseri umani. Uno degli studi più famosi è stato quello sugli effetti della carestia a Rotterdam durante la seconda guerra mondiale. Nell’inverno del 1944 i tedeschi in ritirata bloccarono la fornitura di cibo e carburante nell’ovest dei Paesi Bassi, dove vivevano circa quattro milioni e mezzo di persone. I ricercatori scoprirono che i igli delle donne che avevano concepito o che erano già incinte durante la carestia erano più soggetti a problemi di salute come il diabete, l’obesità e le malattie cardiovascolari rispetto ai loro coetanei nati nell’est del paese. Ma la cosa più sorprendente, almeno per i genetisti ortodossi, è che la stessa caratteristica è stata riscontrata anche nei loro figli e nipoti. I dati che emergono da questi “esperimenti naturali” sono complessi e qualsiasi conclusione è necessariamente fragile, ma effetti simili sono stati ottenuti anche in laboratorio. Per esempio, uno studio consisteva nel nutrire femmine di coniglio incinte o in fase di allattamento con cibo che conteneva bacche di ginepro dal sapore molto forte. Se potevano scegliere, da adulti anche i loro figli preferivano una dieta a base di bacche di ginepro, e la stessa cosa faceva la generazione successiva. La trasmissione delle preferenze alimentari potrebbe essere una conseguenza della marcatura epigenetica del dna, oppure, come sostengono Eva Jablonka e Marion Lamb in L’evoluzione in quattro dimensioni, essere frutto della trasmissione del comportamento. Secondo Jablonka e Lamb l’evoluzione è un processo multidimensionale che combina genetica, epigenetica e trasmissione del comportamento tra le generazioni. A questi fattori aggiungono la trasmissione simbolica, attraverso quelle che chiamano tradizioni animali o, negli esseri umani, attraverso la lingua e la cultura. Un numero sempre più esiguo di genetisti è ancora scettico perché sostiene che, se non sono costantemente rinforzati, gli effetti transgenerazionali non vengono incorporati nel genoma ma si diluiscono e alla ine scompaiono. Gli epigenetisti rispondono con l’audace affermazione che un tratto epigenetico è “un fenotipo stabilmente ereditabile frutto di cambiamenti che si sono verificati in un cromosoma senza che fosse alterata la sequenza del dna”. Ortodossia e fantascienza A prescindere dalle sue future scoperte, l’epigenetica ha già raggiunto uno degli obiettivi che i biologi degli anni trenta si erano posti invano: coniugare genetica e sviluppo, considerate non scienze delle differenze e delle somiglianze ma parti di un’unità più grande, nella cosiddetta sintesi evoluzionistica estesa (Ees). L’Ees, anticipata da Waddington, mette in discussione l’idea neodarwinista delle creature viventi come “robot giganti”, per usare l’espressione di Dawkins, la cui unica funzione è sopravvivere abbastanza a lungo da trasmettere i loro geni alla generazione successiva. Secondo l’Ees, invece, la selezione non opera solo sul singolo organismo adulto, ma, attraverso i processi epigenetici, sull’intero ciclo vitale, a livello di geni ma anche di genomi, organismi, popolazioni e perfino interi ecosistemi. I rapporti di cooperazione all’interno di una specie e tra specie diverse diventano importanti, accanto alla competizione. Per l’Ees, come per i biologi dialettici degli anni trenta, gli organismi non si limitano ad accettare l’ambiente in cui nascono, ma ne cercano uno più favorevole e quando lo trovano lo modificano, come fanno i castori quando costruiscono una diga. In questo modo, l’Ees afferma che anche processi diversi dalla selezione naturale contribuiscono all’evoluzione. Questo non avrebbe sorpreso Darwin, che sottolineò più volte che la selezione naturale era il principale meccanismo evolutivo, non l’unico. Ma la teoria dell’Ees è ancora oggetto di dibattito. Quando la fondazione cristiana John Templeton ha concesso otto milioni di dollari a un’équipe di ricercatori guidata dal biologo evoluzionista Kevin Laland per lavorare sull’Ees, ha ricevuto una bordata di critiche dai neodarwinisti più convinti. I meccanismi dell’epigenetica sono stati citati per spiegare le differenze tra gemelli geneticamente identici e l’eziologia di malattie e disturbi come il cancro, l’ipertensione, l’obesità e le dipendenze. Sono stati aggiunti prefissi, come nel caso della nutriepigenetica, la teoria che attribuisce molte malattie alla marcatura epigenetica causata da squilibri nella nutrizione durante la gravidanza. Si sta cercando di capire se è possibile usare la metilazione per disattivare in modo permanente alcuni geni nelle terapie contro il cancro e le infezioni virali. Si è aperto un nuovo campo nella ricerca farmacologica, che potrebbe portare alla creazione di nuovi farmaci brevettabili. Ma accanto alla scienza prolifera anche la pseudoscienza. Su internet si trovano articoli secondo cui basterebbe uno sforzo mentale per indurre mutamenti epigenetici che prevengono o inducono il cancro, e pubblicità di integratori vitaminici che funzionano attraverso l’epigenetica. Gli epigenetisti cercano di vigilare sul confine tra scienza e mito e allo stesso tempo devono difendersi da una residua ortodossia che continua a guardarli con scetticismo. Ma la fantascienza può arrivare dove gli scienziati che temono per la loro reputazione non osano spingersi, e a volte è più accurata della scienza stessa nel prevedere le possibilità future. L’AUTORE Steven Rose è un biologo e scrittore britannico. Collabora con il Guardian. Questo articolo è tratto da un suo discorso su C.H. Waddington tenuto nel 2016 all’abbazia di Spineto, in Toscana.