Internazionale
12.10.2016
I
geni non bastano
di
Steven Rose, London Review of Books, Regno Unito.
Per
anni si è pensato che le caratteristiche ereditarie degli esseri
viventi fossero determinate solo dal dna. Ma le ultime ricerche
epigenetiche suggeriscono che i fattori ambientali possono avere un
ruolo fondamentale
La
biologia moderna, quando fu concepita nel seicento, ereditò una
convinzione incrollabile, due misteri e una sfortunata scelta di
tempi. La convinzione riguardava l’immutabilità delle specie, il
fatto che ognuna avesse caratteristiche essenziali, inalterabili, un
principio che si può far risalire come minimo all’epoca di
Aristotele. Il primo mistero riguardava quello che distingue la vita
dalla morte, e il secondo il processo attraverso il quale da un uovo
fecondato si arriva a un organismo perfettamente sviluppato, sia esso
una gallina o un essere umano. Il primo mistero fu risolto con una
tautologia: le creature sono animate anziché inanimate perché sono
pervase dal soffio vitale. Il secondo, quello dell’uovo e della
gallina, rimase oggetto di disputa: la forma finale dell’organismo
adulto è in qualche modo già presente in miniatura nell’ovulo o
nello spermatozoo (preformismo) o si sviluppa per stadi a partire da
una massa originaria informe (epigenesi)? Nel corso dei secoli queste
due domande sono state riformulate varie volte, ma sono ancora alla
base delle scienze della vita. La sfortunata scelta di tempi, che
rendeva più difficile rispondere a certe domande, era il fatto che
la biologia si era sviluppata dopo la fisica. La fisica, soprattutto
quella newtoniana, era già considerata la scienza moderna ideale, e
i primi biologi cercavano di comprendere i processi vitali per
analogia con i sistemi fisici e meccanici: il cuore come una pompa,
il cervello e i nervi prima come sistemi idraulici, poi come linee
telefoniche e infine come computer. Il primo a proporre la metafora
idraulica fu Cartesio all’inizio del seicento. Per il filosofo
francese gli organismi viventi erano semplici macchine, ma gli esseri
umani si distinguevano dagli altri perché possedevano un’anima,
che comunicava con il corpo attraverso un piccolo organo al centro
del cervello, la ghiandola pineale. Un secolo dopo, il fisico,
filosofo e autodichiarato “materialista meccanico” Julien Ofray
de La Mettrie contestò la tesi dualistica di Cartesio in L’homme
machine, sostenendo che i processi mentali non sono altro che
manifestazioni del funzionamento del cervello. All’epoca questa
teoria era considerata eretica, ma oggi è condivisa da molti
neuroscienziati. Il conflitto tra i meccanicisti e i sempre meno
numerosi vitalisti andò avanti per tutto l’ottocento. La teoria
della selezione naturale di Charles Darwin mise fine a qualsiasi
residua convinzione che le specie fossero immutabili. La sua
spiegazione dell’evoluzione era completamente materialistica e si
basava su tre concetti fondamentali: il simile procrea il simile, con
qualche piccola differenza; tutte le creature fanno più figli di
quelli che possono sopravvivere fino all’età adulta; e “i più
idonei”, quelli che si adattano meglio all’ambiente, hanno più
probabilità di sopravvivere e riprodursi a loro volta. Quindi le
specie gradualmente cambiano – si evolvono – nel corso del tempo.
Questa è la selezione naturale. Programmi molecolari Ma Darwin non
fu in grado di spiegare come quelle piccole differenze di idoneità
potevano essere trasmesse alla prole. Avanzò una serie di ipotesi,
come quella secondo cui ogni organo del corpo conteneva minuscole
particelle (gemmule) che circolano nel sangue per poi concentrarsi
nell’apparato riproduttivo. I suoi detrattori approfittarono di
questa lacuna e preferirono credere che la formazione di una nuova
specie potesse verificarsi solo con un grande balzo in avanti. Il
monaco moravo Gregor Mendel, contemporaneo di Darwin ma a lui
sconosciuto, scoprì il meccanismo che il padre dell’evoluzionismo
non era riuscito a comprendere. Con una serie di studi, Mendel
dimostrò che le caratteristiche delle piante di pisello venivano
trasmesse da una generazione all’altra tramite quelli che chiamò
“determinanti”. All’epoca la portata del suo lavoro non fu
compresa appieno, ma intorno al 1900 i suoi risultati furono
riscoperti e ripetuti da diversi scienziati, i cui esperimenti sulla
riproduzione delle piante evidenziarono casi in cui si verificavano
improvvisi cambiamenti di alcune caratteristiche, che potevano essere
trasmessi alla generazione successiva. Chiamarono questi cambiamenti
mutazioni, e i determinanti di Mendel furono denominati geni. Per
molti decenni le mutazioni improvvise di Mendel e non la graduale
selezione naturale di Darwin costituirono la spiegazione preferita
dei cambiamenti evolutivi. Il preformismo rinacque sotto forma di
genetica, che considerava lo sviluppo poco più che la realizzazione
di un programma molecolare inscritto nei geni. Ma una corrente
sotterranea continuò a opporsi a questo tipo di riduzionismo. Per i
romantici, la quantificazione privava il mondo dei suoi tratti
osservabili: colore, profumo, consistenza e forma. Era assurdo
pensare che i disegni tracciati nell’aria da uno stormo di uccelli
in volo o i rapidi e coordinati cambi di direzione di un banco di
aringhe potessero essere ridotti al movimento di ogni singolo uccello
o pesce. Il loro nemico per eccellenza era Newton, che William Blake
rappresentò come uno scienziato che misura il mondo con un compasso.
Negli anni trenta del novecento alcuni giovani biologi di Cambridge
che si definivano “organicisti”, riuniti intorno all’embriologo
Joseph Needham, fondarono il Theoretical biology club (Tbc) nel
tentativo di superare la vecchia contrapposizione tra meccanicismo e
vitalismo. Al congresso sulla storia della scienza e della tecnologia
che si tenne a Londra nel 1931 rimasero colpiti dall’intervento
della delegazione sovietica guidata da Nikolaj Bucharin, un protetto
di Lenin che sarebbe stato epurato poco dopo. I sovietici
respingevano l’idea di una progressiva e disinteressata ricerca
della verità, sostenendo che la scienza è determinata dall’economia
politica dominante in un dato periodo. Da questo punto di vista, il
predominio del materialismo meccanicistico poteva essere considerato
funzionale alle necessità del capitalismo durante la rapida
industrializzazione dell’ottocento. Qualche anno dopo, quando la
Dialettica della natura di Friedrich Engels fu pubblicata in inglese
con un’introduzione del genetista J.B.S. Haldane, i ricercatori
pensarono di avere finalmente trovato gli strumenti teorici di cui
avevano bisogno. La vita non può esser ridotta a pure molecole,
dicevano, ma per spiegarla non c’è bisogno di ricorrere a un
principio vitale immateriale. Il mondo materiale è costituito da una
moltitudine di entità e di processi a vari livelli di complessità.
Ogni livello è governato da un insieme di princìpi organizzativi
che dipendono da quelli che governano i livelli inferiori ma non
possono essere ridotti a quelli. Le proprietà dell’acqua non
possono essere dedotte da quelle dell’idrogeno e dell’ossigeno;
il comportamento delle unità di base della vita, le cellule, non è
semplicemente un aggregato delle proprietà delle proteine, dei
lipidi o di qualsiasi altro dei loro componenti. A ogni livello di
complessità, dalla molecola alla cellula, dall’organismo
all’ecosistema e alla società, emergono nuove proprietà e nuovi
rapporti organizzativi, ognuno dei quali ha la sua scienza.
Soprattutto, sosteneva il Tbc, il mondo vivente è dinamico e
autorganizzato: non dovrebbe essere visto tanto come un insieme di
oggetti quanto di processi che interagiscono tra loro in modo
dialettico. La biologia, a differenza della fisica, è una scienza
storica, sosteneva Needham: lo stato attuale di qualunque sistema
vivente può essere compreso solo in riferimento al suo passato
recente (sviluppo) e lontano (evoluzione). Gli stessi organismi non
sono statici ma si rigenerano continuamente, e continuano a esistere
anche se tutte le molecole del corpo vengono scomposte e
risintetizzate migliaia – a volte milioni – di volte ogni ora. Il
Tbc cercava di riunificare tre scienze biologiche che si erano
separate all’inizio del secolo: l’evoluzionismo, la genetica e
l’embriologia (che poi sarebbe stata chiamata biologa dello
sviluppo). Haldane e altri due biologi matematici, Ronald Fisher e
Sewall Wright, coniugarono la genetica mendeliana e la selezione
naturale in quella che poi sarebbe stata chiamata sintesi moderna o
neodarwinismo, una teoria dell’evoluzione più ampia che sarebbe
rimasta in auge per tutto il novecento. Secondo il neodarwinismo sono
piccoli cambiamenti casuali dei geni a produrre quelle variazioni
ereditabili nell’idoneità di un organismo su cui si basa la
selezione naturale. Uscivano di scena le mutazioni rapide e tornava
la gradualità. Gli organismi viventi erano considerati semplici
veicoli della trasmissione genetica e l’evoluzione stessa veniva
ridefinita come “un cambiamento nella frequenza dei geni
all’interno di una popolazione”. Far andare d’accordo genetica
e sviluppo era un compito più arduo. Fin dai tempi di Mendel la
genetica era stata la scienza delle differenze, che cercava di
spiegare perché alcuni piselli sono gialli e grinzosi e altri verdi
e lisci, o perché una persona ha gli occhi azzurri e un’altra li
ha color nocciola. La biologia dello sviluppo invece si basava sulle
somiglianze, e si chiedeva, per esempio, perché gli esseri umani,
nel loro percorso dall’ovulo fecondato all’adulto, sono in genere
bilateralmente simmetrici, hanno due occhi e due mani che finiscono
ciascuna con cinque dita. Una sintesi fu tentata da un altro
componente del gruppo di Cambridge, il poliedrico biologo C.H.
Waddington, che all’inizio degli anni quaranta coniò il termine
epigenetica per definire lo studio delle “interazioni causali tra i
geni e i loro prodotti che danno origine al fenotipo”. Fenotipo è
una parola un po’ ambigua, ma indica più o meno l’insieme delle
caratteristiche osservabili di un organismo vivente, dal livello
molecolare e cellulare all’intero organismo e al suo comportamento.
Richard Dawkins ne avrebbe poi esteso la definizione, affermando che
la diga costruita da un castoro fa parte del suo fenotipo.
L’epigenetica
cerca di spiegare come, a partire da un identico insieme di geni, le
contingenze dello sviluppo possono portare a risultati diversi. Per
illustrare questo concetto, Waddington immaginò un “paesaggio
epigenetico” fatto di colline e vallate. Se mettiamo una palla in
cima a una collina e le diamo una piccola spinta, saranno
fluttuazioni casuali a determinare da che parte rotolerà. Waddington
chiamò questo processo canalizzazione, anche se all’epoca era
impossibile sapere su cosa si basasse concretamente quella metafora.
Immaginava che le colline e le valli fossero modellate da corde che
partivano da nodi (i geni) collocati sotto la superficie. Waddington
si spinse anche oltre, ipotizzando che se un cambiamento fenotipico
fortemente canalizzato si ripeteva generazione dopo generazione,
prima o poi si sarebbe verificata una mutazione casuale che lo
avrebbe assimilato nel genoma. Per dimostrarlo espose degli embrioni
di drosoila all’etere, che le induce a sviluppare un secondo
torace. Dopo una ventina di generazioni (le drosoile impiegano circa
sette giorni per raggiungere la maturità sessuale, quindi gli
esperimenti sono facili e veloci), gli insetti sviluppavano un
secondo torace senza bisogno dell’etere: il doppio torace indotto
epigeneticamente era entrato a far parte del loro genoma. A molti
contemporanei di Waddington questa sembrava una nuova versione della
peggiore eresia evoluzionistica, il lamarckismo, secondo cui le
caratteristiche acquisite possono essere trasmesse. Sminuirono i
risultati di Waddington sostenendo che erano il prodotto artificiale
di condizioni di laboratorio estreme, irrilevanti nel mondo reale. Il
Tbc chiese un finanziamento alla fondazione Rockefeller per avviare
un istituto di biologia teoretica a Cambridge, ma Rockefeller preferì
investire nel campo della biochimica, che lasciava presagire i futuri
trioni della genetica molecolare. Durante la seconda guerra mondiale
i componenti del gruppo furono coinvolti nella ricerca bellica, e
l’epigenetica scomparve gradualmente. La delusione del genoma Negli
anni cinquanta, quando Francis Crick e James Watson scoprirono la
struttura del dna, tra i biologi (soprattutto quelli provenienti
dalla fisica e dall’ingegneria come Crick) si diffuse la
convinzione che quello che serviva era uno spietato riduzionismo. Fu
subito chiaro che la struttura a elica del dna costituiva la forma
chimica di un programma, un codice costituito dalle quattro
sottounità o “basi” della molecola: adenina, citosina, guanina e
timina, rappresentate dalle lettere A, C, G e T. Questo codice poteva
dirigere lo sviluppo di un organismo, ed era anche un meccanismo di
copiatura che permetteva di passare le informazioni da una
generazione all’altra. A quanto pareva, la vita era calcolabile. Il
trionfo del riduzionismo sembrava così certo che negli anni novanta
alcuni ambiziosi biologi molecolari riuscirono a convincere i loro
finanziatori, pubblici e privati, a imbarcarsi in un grande progetto
per ricostruire la sequenza dei tre miliardi di A, C, G e T che
costituiscono il genoma umano. Secondo i ricercatori le informazioni
fornite dalla sequenza avrebbero completamente trasformato il nostro
modo di vedere la medicina, e dato una forte spinta a un’economia
anemica. Una volta avviato il progetto, i ricercatori fecero un
sondaggio. Quanti geni – vale a dire, quante minisequenze di A, C,
G e T che codificano specifiche proteine – avrebbero trovato nel
genoma umano? In media le risposte indicavano circa centomila, più o
meno quante sono le proteine nel nostro corpo. Ma alla fine si scoprì
che i geni erano poco più di ventimila, più o meno gli stessi di un
nematode lungo un millimetro. Ventimila geni per plasmare lo sviluppo
di un embrione umano da ovulo fecondato a neonato, per codificare le
centomila proteine, per determinare il destino dei 37mila miliardi di
cellule del corpo umano. Questo numero smentiva l’ipotesi che ci
fosse un gene per ogni particolare caratteristica umana, dal colore
degli occhi al quoziente intellettivo all’orientamento sessuale, e
vanificava la speranza che conoscendo la sequenza del genoma fosse
possibile trovare cure su misura per le malattie complesse. Il
problema sta nell’idea sbagliata che i geni siano “supermolecole”
che dirigono le operazioni delle cellule in cui risiedono. In realtà
il dna è una molecola piuttosto inerte, caratteristica che deve
avere per fare da codice. Sono le cellule a fare tutto il lavoro. Gli
enzimi cellulari leggono, modificano, tagliano, incollano,
trascrivono e traducono segmenti di dna, in un lusso programmato
durante lo sviluppo del feto, a seconda che le cellule siano
destinate a diventare fegato o cervello, sangue o ossa. Nessun gene è
isolato, tutti collaborano. Per produrre un unico fenotipo possono
essere necessari molti geni (per esempio, è stato dimostrato che
sulle malattie coronariche influiscono più di cinquanta varianti
genetiche) e un singolo gene può influire su molti tratti
fenotipici, a seconda delle cellule in cui è attivo. È in questo
periodo di rapida crescita che gli organismi viventi sono più
plastici, e reagiscono alle condizioni ambientali modificando i loro
tratti fenotipici anatomici, biochimici, fisiologici o
comportamentali. Questa è la canalizzazione epigenetica. I biologi
molecolari dovevano poi scoprire i meccanismi attraverso i quali le
cause esterne attivano e disattivano i geni. Questo implicava
riconoscere l’importanza del fatto che il dna è protetto da un
sottile strato di proteine (gli istoni), e che un frammento di questo
strato deve scollarsi perché si possa leggere un particolare
segmento di dna. I fattori ambientali influiscono su questo processo
di scollamento, quindi sulla selezione dei geni da leggere. Una
seconda importante scoperta è stata che durante lo sviluppo alcuni
segmenti di dna vengono “marcati”: un frammento molecolare, un
metile (H3), si lega a una delle basi del dna (di solito la
citosina). La presenza del metile impedisce di leggere il dna, cioè
disattiva il gene. Se il metile viene rimosso il gene si riattiva.
Con il progresso dell’epigenetica probabilmente verranno scoperti
molti altri meccanismi simili. L’ambiente in cui è immerso un
embrione durante la fase di sviluppo non è immutabile. Nei mammiferi
i livelli ormonali o la dieta seguita dalla femmina durante la
gestazione influiscono sull’embrione e sul feto, che si adatta alle
side ambientali aggiungendo o rimuovendo metili da specifiche regioni
del dna, controllando così la direzione del suo sviluppo lungo l’una
o l’altra delle valli del paesaggio epigenetico di Waddington.
Inoltre ci sono sempre più prove che le marcature metiliche che
compaiono sul dna durante lo sviluppo permangono e possono essere
trasferite alla generazione successiva insieme ai loro effetti
fenotipici. Anche se i loro meccanismi molecolari erano ignoti,
questi fenomeni transgenerazionali sono noti da decenni, sono stati
verificati in laboratorio sugli animali e osservati negli esseri
umani. Uno degli studi più famosi è stato quello sugli effetti
della carestia a Rotterdam durante la seconda guerra mondiale.
Nell’inverno del 1944 i tedeschi in ritirata bloccarono la
fornitura di cibo e carburante nell’ovest dei Paesi Bassi, dove
vivevano circa quattro milioni e mezzo di persone. I ricercatori
scoprirono che i igli delle donne che avevano concepito o che erano
già incinte durante la carestia erano più soggetti a problemi di
salute come il diabete, l’obesità e le malattie cardiovascolari
rispetto ai loro coetanei nati nell’est del paese. Ma la cosa più
sorprendente, almeno per i genetisti ortodossi, è che la stessa
caratteristica è stata riscontrata anche nei loro figli e nipoti. I
dati che emergono da questi “esperimenti naturali” sono complessi
e qualsiasi conclusione è necessariamente fragile, ma effetti simili
sono stati ottenuti anche in laboratorio. Per esempio, uno studio
consisteva nel nutrire femmine di coniglio incinte o in fase di
allattamento con cibo che conteneva bacche di ginepro dal sapore
molto forte. Se potevano scegliere, da adulti anche i loro figli
preferivano una dieta a base di bacche di ginepro, e la stessa cosa
faceva la generazione successiva. La trasmissione delle preferenze
alimentari potrebbe essere una conseguenza della marcatura
epigenetica del dna, oppure, come sostengono Eva Jablonka e Marion
Lamb in L’evoluzione in quattro dimensioni, essere frutto della
trasmissione del comportamento. Secondo Jablonka e Lamb l’evoluzione
è un processo multidimensionale che combina genetica, epigenetica e
trasmissione del comportamento tra le generazioni. A questi fattori
aggiungono la trasmissione simbolica, attraverso quelle che chiamano
tradizioni animali o, negli esseri umani, attraverso la lingua e la
cultura. Un numero sempre più esiguo di genetisti è ancora scettico
perché sostiene che, se non sono costantemente rinforzati, gli
effetti transgenerazionali non vengono incorporati nel genoma ma si
diluiscono e alla ine scompaiono. Gli epigenetisti rispondono con
l’audace affermazione che un tratto epigenetico è “un fenotipo
stabilmente ereditabile frutto di cambiamenti che si sono verificati
in un cromosoma senza che fosse alterata la sequenza del dna”.
Ortodossia e fantascienza A prescindere dalle sue future scoperte,
l’epigenetica ha già raggiunto uno degli obiettivi che i biologi
degli anni trenta si erano posti invano: coniugare genetica e
sviluppo, considerate non scienze delle differenze e delle
somiglianze ma parti di un’unità più grande, nella cosiddetta
sintesi evoluzionistica estesa (Ees). L’Ees, anticipata da
Waddington, mette in discussione l’idea neodarwinista delle
creature viventi come “robot giganti”, per usare l’espressione
di Dawkins, la cui unica funzione è sopravvivere abbastanza a lungo
da trasmettere i loro geni alla generazione successiva. Secondo
l’Ees, invece, la selezione non opera solo sul singolo organismo
adulto, ma,
attraverso i processi epigenetici, sull’intero ciclo vitale, a
livello di geni ma anche di genomi, organismi, popolazioni e perfino
interi ecosistemi. I rapporti di cooperazione all’interno di una
specie e tra specie diverse diventano importanti, accanto alla
competizione. Per l’Ees, come per i biologi dialettici degli anni
trenta, gli organismi non si limitano ad accettare l’ambiente in
cui nascono, ma ne cercano uno più favorevole e quando lo trovano lo
modificano, come fanno i castori quando costruiscono una diga. In
questo modo, l’Ees afferma che anche processi diversi dalla
selezione naturale contribuiscono all’evoluzione. Questo non
avrebbe sorpreso Darwin, che sottolineò più volte che la selezione
naturale era il principale meccanismo evolutivo, non l’unico. Ma la
teoria dell’Ees è ancora oggetto di dibattito. Quando la
fondazione cristiana John Templeton ha concesso otto milioni di
dollari a un’équipe di ricercatori guidata dal biologo
evoluzionista Kevin Laland per lavorare sull’Ees, ha ricevuto una
bordata di critiche dai neodarwinisti più convinti. I meccanismi
dell’epigenetica sono stati citati per spiegare le differenze tra
gemelli geneticamente identici e l’eziologia di malattie e disturbi
come il cancro, l’ipertensione, l’obesità e le dipendenze. Sono
stati aggiunti prefissi, come nel caso della nutriepigenetica, la
teoria che attribuisce molte malattie alla marcatura epigenetica
causata da squilibri nella nutrizione durante la gravidanza. Si sta
cercando di capire se è possibile usare la metilazione per
disattivare in modo permanente alcuni geni nelle terapie contro il
cancro e le infezioni virali. Si è aperto un nuovo campo nella
ricerca farmacologica, che potrebbe portare alla creazione di nuovi
farmaci brevettabili. Ma accanto alla scienza prolifera anche la
pseudoscienza. Su internet si trovano articoli secondo cui basterebbe
uno sforzo mentale per indurre mutamenti epigenetici che prevengono o
inducono il cancro, e pubblicità di integratori vitaminici che
funzionano attraverso l’epigenetica. Gli epigenetisti cercano di
vigilare sul confine tra scienza e mito e allo stesso tempo devono
difendersi da una residua ortodossia che continua a guardarli con
scetticismo. Ma la fantascienza può arrivare dove gli scienziati che
temono per la loro reputazione non osano spingersi, e a volte è più
accurata della scienza stessa nel prevedere le possibilità future.
L’AUTORE Steven Rose è un biologo e scrittore britannico.
Collabora con il Guardian. Questo articolo è tratto da un suo
discorso su C.H. Waddington tenuto nel 2016 all’abbazia di Spineto,
in Toscana.