Il Sole Domenica 6.11.16
Realtà e modelli
Una «leva» per capire il mondo
Da Archimede alla teoria delle stringhe, spesso è un problema di fisica ad aprire nuove strade della matematica
di Vincenzo Barone
La
matematica, diceva il grande teorico dei numeri André Weil, non è
nient’altro che un’arte, «una specie di scultura in un materiale duro e
resistente, come certi porfidi». Ma per quale motivo quest’arte che si
esercita su una materia mentale abbia così tanto successo nel descrivere
la materia fisica, il mondo naturale, resta un mistero.
«L’irragionevole efficacia della matematica», la chiamava il fisico
teorico Eugene Wigner, preceduto nelle sue riflessioni sull’argomento
dal cognato Paul Dirac, il teorizzatore dell’antimateria, il quale
parlava di una «qualità matematica della natura», non suscettibile di
una spiegazione logica. In effetti, è difficile capire perché, per
esempio, le sezioni coniche (ellissi, parabole e iperboli), frutto
dell’ingegno di un matematico alessandrino del III secolo a.C.,
Apollonio di Perga, si ritrovino nelle orbite dei corpi celesti; o
perché i numeri immaginari (radici quadrate di numeri negativi),
introdotti nella seconda metà del Cinquecento dal bolognese Raffaele
Bombelli per «la certezza delle regole generali», siano alla base della
meccanica quantistica e della struttura della materia; o ancora, perché
la teoria dei gruppi, concepita dal ventenne Évariste Galois poco prima
di morire in duello, sia la chiave per comprendere le particelle
elementari e le loro interazioni.
Un ulteriore esempio di questa
«irragionevole efficacia» ci è stato fornito nelle scorse settimane
dall’Accademia Svedese delle Scienze, che ha assegnato il premio Nobel
per la fisica del 2016 a tre ricercatori britannici, David Thouless,
Michael Kosterlitz e Duncan Haldane, per i loro studi sulle fasi
topologiche della materia. La topologia, usando un’espressione del suo
fondatore, Henri Poincaré, è la «geometria dei disegnatori maldestri».
Immaginiamo di voler riprodurre delle figure geometriche e di non avere
le capacità di un Giotto. Per quanto ci impegneremo, i cerchi saranno
deformati, le dimensioni cambieranno, le proporzioni verranno meno. Ma, a
meno di non aver introdotto stranezze, le figure che avremo disegnato
saranno «topologicamente equivalenti» agli originali. La topologia si
occupa di quelle caratteristiche delle figure che rimangono invariate
quando si effettuano trasformazioni che modificano lunghezze, angoli e
forme, ma non comportano strappi, tagli o incollature. Si tratta di una
geometria globale, non locale, “qualitativa”, non metrica, che non
distingue tra un pallone da calcio e uno da rugby, ma distingue tra una
ciambella e un krapfen, perché la prima ha un buco, il secondo no, e non
c’è modo di trasformare con continuità l’una nell’altro. Il numero di
buchi presenti in un oggetto è uno dei più semplici invarianti
topologici; un altro è il numero di avvolgimento, che indica quante
volte una curva chiusa gira attorno a un punto. Kosterlitz, Thouless e
Haldane hanno scoperto che numeri come questi, apparentemente ben
lontani dalla realtà fisica, si annidano nella materia, caratterizzano
certi suoi stati e permettono di spiegare numerosi fenomeni. Tra le
discipline matematiche, la topologia è approdata alla fisica
relativamente in ritardo, ma si è fatta subito valere, e il Nobel di
quest’anno la incorona.
Non bisogna però pensare che i fisici
trovino sempre già pronti nel grande magazzino delle matematiche gli
attrezzi adatti al loro lavoro, né che il rapporto tra matematica e
fisica sia unidirezionale, fatto solo di applicazioni della prima alla
seconda. Succede spesso che il fisico debba costruire da sé gli
strumenti matematici di cui ha bisogno – strumenti di cui la matematica,
successivamente, si appropria, generalizzandoli e rendendoli rigorosi. È
il caso della funzione delta – una stranissima funzione a spillo,
infinita in un punto e nulla in tutti gli altri –, inventata da Dirac
nell’ambito della sua sistemazione formale della meccanica quantistica.
Quando il matematico francese Laurent Schwartz la vide per la prima
volta, ne rimase «disgustato». Poi, però, decise di prenderla sul serio e
costruì attorno a essa un nuovo fecondissimo ramo della matematica, la
teoria delle distribuzioni. La morale, nelle parole dello stesso
Schwartz, è che «è un bene che i fisici non aspettino una
giustificazione matematica prima di procedere con le loro teorie».
Tra
gli esempi di problemi matematici stimolati dalla ricerca sperimentale
uno dei più divertenti prende il nome da Joseph Plateau, un fisico belga
che nella seconda metà dell’Ottocento effettuò una lunga serie di
esperimenti sulle bolle di sapone. Se immergiamo un filo metallico
chiuso in acqua saponata, si forma una pellicola che è la superficie di
area minima avente il filo come contorno. Plateau osservò che qualunque
filo metallico, indipendentemente dalla sua forma geometrica, delimitava
almeno una pellicola di sapone. Ciò portava a credere che esistesse
sempre una superficie minima, ma questa congettura non poteva
evidentemente essere provata su base empirica e richiedeva una
dimostrazione matematica. Il problema di Plateau è di straordinaria
difficoltà e ha impegnato per decenni molte grandi menti. Lo risolse nel
1931 un matematico statunitense, Jesse Douglas, il quale dimostrò che
per ogni curva chiusa non intersecantesi esiste sempre almeno una
superficie minima topologicamente equivalente a un disco. Per questo
lavoro Douglas ricevette nel 1936 la prima medaglia Fields,
l’equivalente del Nobel in campo matematico.
Ma l’aspetto più
sorprendente della relazione tra la matematica e le scienze naturali è
l’uso di procedure e metodologie fisiche per scoprire nuovi fatti
matematici. Questa pratica ha un’origine remota. Nel III secolo a.C.
Archimede applicò in maniera ingegnosa la meccanica alla geometria, con
risultati ragguardevoli: stabilì i volumi e le aree di molte figure
utilizzando la legge della leva, cioè immaginando di equilibrare figure
diverse sui piatti opposti di una bilancia. Oggigiorno, non è la
meccanica a venire in aiuto della matematica, ma una delle teorie
fisiche più sofisticate, la teoria delle stringhe, che ha contribuito a
risolvere svariati problemi di topologia e di geometria. Le stringhe
sono definite in uno spazio-tempo a 10 dimensioni, e le 6 dimensioni che
eccedono quelle ordinarie sono organizzate in spazi di un tipo
particolare, introdotti dai matematici Eugenio Calabi e Shing-Tung Yau
ben prima che le loro applicazioni fisiche venissero alla luce. Molte
delle proprietà degli spazi di Calabi-Yau sono state scoperte dai
fisici. Una di esse, un indice topologico legato proprio al numero di
buchi presenti nello spazio, è in relazione con un dato fisico, il
numero di tipi di particelle elementari – un’altra manifestazione della
stupefacente pervasività della matematica nel mondo naturale.
Quale
sarà l’evoluzione di questa storia? La matematica e la fisica
continueranno a procedere su binari paralleli con continui interscambi,
com’è successo finora, o dobbiamo aspettarci uno scenario diverso?
Secondo Dirac le strade finiranno per convergere: le due discipline
tenderanno un giorno a unificarsi, con il risultato che «ogni settore
della matematica pura avrà un’applicazione fisica e la sua importanza in
fisica sarà proporzionale al suo interesse in matematica». C’è però chi
immagina un esito opposto. Forse, come ha ipotizzato il fisico teorico
John Archibald Wheeler, giunti al fondo di tutto, scopriremo che non ci
sono leggi matematiche, bensì una miriade di meccanismi elementari, da
cui la matematica emerge come un epifenomeno. Ma siamo evidentemente nel
campo delle illazioni: il segreto del Gran Vecchio, per dirla con
Einstein, è ancora ben nascosto.