Il Sole Domenica 6.11.16
L’antipopulismo populista
di Gabriele Pedullà
Proprio
coloro che ci mettono in guardia dalla demagogia politica si fanno
paladini di quella estetica suonando la grancassa della gente comune
contro ogni arte sofisticata
Viviamo in un’epoca di populismi:
reali, presunti, immaginari. In alcuni casi, nelle parole dei
commentatori e dei politici stessi, il termine serve soltanto per
imbrogliare le carte, stigmatizzando quel che non ci piace con una
espressione che evoca la barbarie delle folle indisciplinate. Se però
c’è un populismo della cui esistenza sicuramente non possiamo dubitare,
perché ogni giorno parla con la voce di un Nuovo Senso Comune, questo è
il populismo estetico. Fenomeno trasversale, il populismo estetico
infiltra a ogni livello il discorso dei media e domina le sparate dei
politici in occasione della scomparsa degli eroi della cultura di massa.
Evviva i funerali di Stato per Mike Bongiorno! Che noia Antonioni! Il
graphic novel è il solo futuro del romanzo! I veri poeti sono i
cantautori! La gastronomia è la più alta forma di cultura contemporanea!
Vogliamo Barabba! E così discettando.
Qualunque cosa si pensi
della scelta dei giurati di Stoccolma, non c’è dubbio che, da noi, il
Nobel a Bob Dylan avrà non poche conseguenze nefaste (più della Canzone
per Piero di Guccini inserita con Dante e Cicerone nella traccia di uno
dei temi di maturità, nel 2004): da questo momento sarà più difficile
persuadere chiunque che no, che non è vero, che i grandi poeti del
secondo Novecento non sono De André, Dalla, De Gregori e Battisti, e che
vale la pena di leggersi piuttosto Caproni, Sereni, Penna e Pagliarani
(solo per fare qualche nome). Il populismo estetico non è un fenomeno
propriamente nuovo, ma non va confuso né con la fascinazione per la
letteratura popolare né con gli innumerevoli progetti di elevazione
intellettuale delle masse attraverso l’arte, su per giù dal Romanticismo
Völkisch alle aberrazioni pedagogiche del realismo socialista. Esso
costituisce, semmai, esattamente il loro contrario: dal momento che per
il populismo estetico la maggioranza ha sempre e comunque ragione, non
c’è alcuna ascesa spirituale da compiere (per esempio come
autoeducazione alla varietà o alla storicità del gusto). Da qui alla
rivolta contro le élite culturali il passo è breve: sino
all’intolleranza verso qualsiasi forma di complessità. Vox populi, vox
dei, semplicemente.
Il primo a richiamare l’attenzione
sull’avanzata del populismo estetico è stato probabilmente Fredric
Jameson, nel suo famoso saggio sul Postmoderno del 1984 (i due fenomeni
sarebbero complementari se non addirittura sovrapponibili). La
particolarità dei nostri anni è però l’inedito combinarsi del populismo
estetico con l’anti-populismo politico in una sorta di nuovo mainstream
ideologico, che si può riassumere nella formula di anti-populismo
populista.
Che cos’è l’anti-populismo populista? Alla grossa, lo
si potrebbe definire quella forma di (apparente) schizofrenia per cui,
proprio coloro che mettono quotidianamente in guardia lettori ed
elettori contro la minaccia delle forze anti-sistema, non perdono
occasione per farsi grancassa dell’insofferenza dei consumatori più
corrivi verso qualsiasi forma di arte sofisticata. Con uno strano
cortocircuito, lo stesso popolo al quale non vanno delegate le decisioni
importanti (come in non pochi hanno sostenuto in occasione della
Brexit) diventa invece l’unico giudice attendibile in materia di arte,
cinema, musica, letteratura. Le ragioni del populismo estetico delle
élite possono essere molteplici. Da parte dei politici è spesso soltanto
un modo per ampliare il consenso, nel tentativo di mostrarsi più vicini
agli elettori (un poco come non indossando la cravatta). O, ancora
peggio, si tratta di una riedizione del vecchio principio di Governo che
prescriveva di erogare in abbondanza intrattenimenti di bassa lega alle
plebi urbane (panem et circenses o, nella versione appena più efferata
dei Borboni di Napoli, «feste, farina e forca»).
C’è però
indubbiamente anche qualcosa di più profondo. Nonostante la loro
apparente inconciliabilità, anti-populismo politico e populismo estetico
hanno in comune un medesimo rifiuto delle alternative al presente. Ci
collochiamo dunque all’opposto del modernismo novecentesco, segnato da
una proiezione verso il futuro che si manifestava anzitutto nella
richiesta ai lettori di andare oltre se stessi, per esempio sforzandosi
di capire le ragioni di un’opera che di primo acchito può apparire
incomprensibile, repulsiva o dissonante. Nelle parole del più acuto
teorizzatore del modernismo, Theodor Adorno, tutta la grande arte
porterebbe in sé un tasso di negatività che non può, né deve, essere
completamente risolto perché il suo compito è piuttosto quello di
contestare l’ordine esistente, in qualche modo perpetuando anche nella
soddisfatta società del benessere un’insopprimibile tensione utopica.
Populismo
estetico e anti-populismo politico si saldano proprio nel rifiuto di
quella negatività. Non c’è più un vuoto da far emergere nel pieno. In
entrambi i casi, invece, il presente (il gusto di oggi, la politica di
oggi) viene postulato come immodificabile nei suoi tratti fondamentali.
Se le cose stanno così, ogni alternativa allo status quo assume i
caratteri di una minaccia da combattere o (nel caso dell’arte meno
convenzionale) da ridicolizzare. Così facendo, nei suoi interpreti più
aggressivi il nuovo mainstream dell’anti-populismo populista finisce
dunque per contestare uno dei tratti fondamentali di qualsiasi scelta
politica ed estetica – la pluralità delle opzioni – nel nome di un unico
buonsenso: popolare o tecnocratico ma comunque e sempre “naturale”.
L’anti-populismo populista non ammette infatti alcuna replica alle
proprie certezze.
Se declinata sul doppio binario dell’estetica e
della politica, la coppia populismo/anti-populismo consente però di
delineare altre tre posizioni. Ci sono anzitutto l’anti-populista e il
populista integrali. Il primo incarna una posizione nobilmente antica ma
anche un po’ fanée nella sua fiducia incrollabile nei valori della
Grande Tradizione (che, al nostro punto storico, non può non comprendere
anche le esperienze dell’arte di avanguardia del XX secolo). La
marginalizzazione di questa figura, oggi francamente sulla difensiva, è
l’effetto di uno dei fenomeni più clamorosi degli ultimi decenni: il
trionfo planetario del Capitalismo proprio nel momento in cui ovunque
vediamo tracollare il sistema di valori di colui che ne è stato il
volano. Il borghese, per l’appunto (ci ha recentemente scritto sopra uno
splendido libro Franco Moretti).
Al polo opposto, troviamo il
populista integrale. Nella sua coerenza, anche lui riserva ben poche
sorprese. Nei politici radicali la costruzione di uno speciale filo
emotivo con i propri sostenitori passa infatti sempre più spesso anche
dal richiamo a esperienze estetiche condivise, che cementano
l’identificazione tra la massa e il leader. È il caso di Podemos e di
Pablo Iglesias, il quale inaugura e conclude ogni comizio evocando Il
trono di spade. In questi politici la polemica contro la casta, secondo
la dialettica alto-basso, viene così a fondarsi anche sulla
contrapposizione tra due culture alternative (e mutualmente esclusive).
La
figura di gran lunga più difficile da inquadrare è però senza dubbio
quella del populista in politica che non si piega alle scorciatoie del
populismo artistico. Nel suo caso la critica senza compromessi del
presente non viene condotta infatti nel nome di una presunta saggezza
popolare e non alimenta nessuna forma di anti-intellettualismo; al
contrario, la lotta al presente si fonda su saperi estremamente
sofisticati e sull’invito a guardare oltre la superficie delle cose:
ovvero, come si diceva una volta, a demistificare la cultura
naturalizzata (e qui la radice marxista di questa posizione appare con
speciale chiarezza). Con l’insistenza sulla necessità che persino i
soggetti della critica imparino a trascendere i propri pregiudizi, ci
collochiamo anzi così distanti dalla figura del populista integrale che
viene da chiedersi se le due figure abbiano davvero qualcosa in comune.
Una
risposta possibile è che, in effetti, il populista (in politica)
anti-populista (in estetica) non è un vero populista, come si sostiene
abitualmente. Piuttosto, occorre riconoscere che questo termine gli
viene addossato come stigma dagli avversari, creando un cortocircuito
tra fenomeni molto diversi, perché, alla luce della loro comune
opposizione allo stato di cose, una singola categoria omnibus –
populismo, appunto – finisce per coprire atteggiamenti tra loro
incompatibili, come nei casi di Farage e Corbyn, Trump e Sanders, Grillo
e Landini, Le Pen e Melanchon, Alba Dorata e Syriza, la Alternative für
Deutschland e la Linke. È ciò che una certa storiografia ha fatto
disinvoltamente per decenni con la categoria di totalitarismo, nella
quale comunismo sovietico e nazi-fascismo italo-tedesco venivano a
confondersi in una notte dove tutte le vacche sono grigie. Invece, per
dire di no ai veri populismi, distinguere rimane essenziale. E che lo si
possa fare solo restituendo alla dimensione estetica il posto che
merita nel discorso pubblico è anche un modo di ricordarci che persino
oggi, nonostante tutto, l’arte non è solo intrattenimento o riempitivo.