Il Sole Domenica 6.11.16
Abitare le parole / morte
Perché non avrebbe senso vivere per sempre
di Nunzio Galantino
«È
possibile conservare il senso della vita mentre mi trovo in presenza
della certezza della morte? Che significa per me che colui/colei che amo
muoia?». Domande che si aprono a due possibilità: quella che spinge a
evitare il confronto con esse, nel timore di sentirsi paralizzato nel
vivere; e la possibilità di riconoscere un senso alla vita proprio a
partire dalla sua finitudine o, per qualcuno, a partire da ciò che ci
aspetta “dopo” la morte. L’esperienza-limite della morte è tra i
principali motivi che rischiano di paralizzare la voglia di vivere e la
gioia di spendersi in maniera consapevole. Ma la morte o, meglio, la
vita segnata irrimediabilmente dalla morte non possiede soltanto la
forza brutale della lacerazione affettiva o quella dello spegnersi e
dell’interrompersi delle possibilità umane. Con la morte, orlo che la
determina e la definisce, vita mutatur non tollitur, come prega la
comunità credente nella liturgia dei defunti. Per la teologia cioè la
vita viene trasformata/elevata in una dimensione totalmente diversa, non
spazio-temporale. Per una filosofia che fa proprio l’imprescindibile
legame che salda la vita e la morte, quest’ultima può spingere verso
l’abbandono di ogni speranza oppure gettare proletticamente una luce
nuova sulla vita. Ognuna di queste due prospettive poggia evidentemente
su un modo preciso di concepire l’uomo e la sua esistenza. Se si nega
all’uomo qualsiasi dimensione trascendente, esaltando in maniera
esclusiva quella intramondana, si farà certamente fatica a indicare
orizzonti di speranza al di là della morte. A questi orizzonti si apre
invece l’esistenza arricchita da un’apertura alla dimensione
trascendente. Nella cura delle affezioni psicopatologiche, tra le quali
va certamente annoverata l’angoscia paralizzante della morte veniente,
il neuropsichiatra viennese V. E. Frankl ha sviluppato un metodo,
denominato Logoterapia, che poggia sulla concezione dell’esistenza umana
vista, in pari tempo, come consapevolezza e come responsabilità.
L’inizio della cura di queste patologie coincide con la chiara
esplicitazione di ciò che conferisce o priva di senso la vita. Frankl
esclude che la morte possa pregiudicare il senso della vita; ritiene
piuttosto che il carattere limitato dell’avventura umana e quindi il suo
carattere storico spingano l’uomo a valorizzare il tempo della propria
vita, a conferirle un significato e a non perdere le occasioni che gli
si presentano. «Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona
ragione per rimandare ogni nostro atto: non avrebbe più alcuna
importanza compierlo oggi piuttosto che domani, dopodomani, tra un anno o
dieci». «La morte - sostiene sulla stessa lunghezza d’onda Vladimir
Jankélévitch - non solo ci impedisce di vivere, limita la vita, e poi un
bel giorno l’accorcia; ma al tempo stesso comprendiamo che senza la
morte l’uomo non sarebbe un uomo, che proprio la presenza latente della
morte fa le grandi esistenze conferendo loro il fervore, l’ardore, il
tono specifici. Si può dire quindi che ciò che non muore non vive».