Il Sole Domenica 20.11.16
Il cocktail esistenzialista
Negli anni ’30 Aron introdusse de Beauvoir e Sartre alla fenomenologia
Nei famosi caffè parigini si parlava di «quotidianità» e del Dasein di Heidegger
di John Banville
Per
circa due decenni dopo la Seconda guerra mondiale, la fascinazione
generale nei confronti dell’esistenzialismo fu un evento davvero
inconsueto, visto che – soprattutto nel mondo anglosassone – erano
davvero in pochi a sapere che cosa fosse l’esistenzialismo. Per molti,
infatti, non era altro che quello che oggi verrebbe definito uno “stile
di vita”, come ci spiegano gli habitué di due celebri caffè di
Saint-Germain- des-Prés tuttora di gran moda, anche se con prezzi
eccessivamente gonfiati: il Flore e il Deux Magots, a due passi l’uno
dall’altro. Buona parte di questa fascinazione fu alimentata, per
esempio, dalla cantante Juliette Gréco che, con i suoi maglioni neri
alla dolcevita e i lunghi capelli lisci anch’essi corvini, stabilì un
vero e proprio “look esistenzialista”. Ma il re e la regina dell’epoca
furono senza dubbio Jean-Paul Sartre e la sua amante, nonché compagna di
tutta una vita, Simone de Beauvoir. E questo fu per loro un periodo
davvero grandioso. Se da un lato nella pletora degli esistenzialisti
abbondava il numero di chi era, come disse W.H. Auden a Yeats, «come noi
sciocco», alcuni di loro erano dei pensatori di tutto rispetto, e
l’esistenzialismo – il termine fu coniato da un giornalista – è stato, e
continua a essere, un contributo notevole ai metodi per fare filosofia.
Sarah
Bakewell, già autrice di una biografia di grande successo su Montaigne,
ripercorre i primissimi esordi filosofici di Sartre in un incontro a
base di cocktail all’albicocca avvenuto tra lui, la de Beauvoir e il suo
vecchio compagno di scuola, Raymond Aron, sul finire del 1932 al caffè
Bec-de-Gaz, in rue Montparnasse. Aron infatti, che con il suo L’oppio
degli intellettuali diventerà uno dei più formidabili antagonisti di
Sartre, aveva studiato a Berlino e poteva quindi illustrare alla coppia
di amici un modo rivoluzionario di affrontare le tradizionali questioni
della filosofia che andava sotto il nome, un po’ lungo ma decisamente
eufonico, di “fenomenologia”. «Se sei un fenomenologo», scrive la
Bakewell citando Aron, «puoi parlare di questo cocktail ed è
filosofia!». Stando al racconto offertoci dalla de Beauvoir di questo
momento cruciale, ecco che nel rendersi conto della portata di un simile
approccio filosofico all’annosa questione di che cosa significhi essere
al mondo, Sartre impallidì. Questi era già venuto a contatto con
l’opera di Martin Heidegger, la cui lezione Che cos’è metafisica? era
stata tradotta e pubblicata in una rivista francese, accanto a un saggio
giovanile dello stesso Sartre, nel 1931. Come ammesso dalla de
Beauvoir, all’epoca né lei né il suo compagno erano riusciti a capire
molto dello scritto di Heidegger – cosa che non stupisce affatto, vista
la sua difficoltà sia concettuale che stilistica –; ora però, ascoltando
le parole di Aron sulla fenomenologia, iniziarono a intravedere i
contorni di un metodo filosofico che avrebbe eliminato i vecchi e triti
rompicapi e affrontato direttamente il mondo delle cose, inclusi gli
esseri umani e l’Essere umano – quello che Heidegger definì il Dasein.
La
fenomenologia si era sviluppata a partire dall’opera di Edmund Husserl,
a sua volta ispirato dagli insegnamenti carismatici di Franz Brentano,
un ex prete cattolico e studioso di Aristotele. Negli anni Ottanta del
XIX secolo, Husserl ebbe modo di seguire, presso l’Università di Vienna,
le lezioni di Brentano sulla relazione tra coscienza e mondo esterno e
da qui l’allievo si spinse oltre, arrivando a sviluppare un approccio al
pensiero con cui potevano essere messi da parte o “tra parentesi” –
Husserl utilizzò il termine greco epoché – gli assiomi e le astrazioni
che avevano ossessionato i filosofi fin dai tempi di Platone, così che
tutta l’attenzione potesse invece essere rivolta ai fenomeni, ossia alle
cose con cui ciascuno di noi ha a che fare nella vita di tutti i
giorni. Per gli esseri umani, essere equivale a essere coscienti, ed
essere coscienti significa essere consapevoli della propria condizione
di creature “gettate”, per usare le parole di Heidegger, in un mondo
contingente. È questo ciò che differenzia gli esseri umani dagli oggetti
che li circondano, come ad esempio un castagno, il quale è
semplicemente, senza bisogno di angustiare la sua chioma frondosa con
questioni concernenti la propria origine, il suo essere quaggiù e il suo
andarsene da qui.
Quest’ultima, la questione della morte, fu tra
le più importanti, soprattutto per Heidegger. L’auto-coscienza, che per
quanto ne sappiamo è propria unicamente dell’essere umano, porta con sé
la consapevolezza di dover morire e questa a sua volta, per Sartre così
come per Heidegger, solleva tutta una serie di questioni spinose legate
all’agire, all’autenticità e, soprattutto, alla libertà. Per Heidegger,
essere significa “essere-per- la-morte”. E così pure, in buona parte,
per Sartre – dopotutto, il titolo della sua opera magna è appunto
L’essere e il nulla –; tuttavia, quest’ultimo e con lui gli altri
esponenti dell’esistenzialismo francese erano più propensi verso la vita
“ordinaria” di quanto non lo fossero i loro mentori tedeschi.
I
due poli della carriera filosofica di Heidegger erano l’aula di lezione e
il sentiero di campagna; per Sartre e la sua cerchia invece erano i
caffè e, ancor di più, le strade fuori dai caffè, lì dove la vita
brulica incessantemente. Potremmo affermare che se la preoccupazione di
Heidegger è l’esserci, una delle traduzioni del termine Dasein, il vero
interesse di Sartre e della de Beauvoir – così come di altri
esistenzialisti francesi tra cui Maurice Merleau-Ponty – è la
quotidianità delle cose. La Bakewell è estremamente abile nel cogliere
le differenze sostanziali tra il concetto heideggeriano di filosofia
intesa come Blut und Boden e quello di una filosofia socialmente più
consapevole e engagé privilegiato da Sartre e dalla de Beauvoir. Se da
un lato questi ultimi – e in particolare la de Beauvoir – condividevano
con Heidegger quello che la Bakewell descrive come un «vivo stupore
dinanzi al fatto che c’è qualcosa anziché il niente», commentando il
modo di pensare di Heidegger simile al procedere di una talpa e
ossessionato dalla morte, l’Autrice scrive pure che «c’è qualcosa di
funereo in questo mondo vegetativo». In un passo decisamente più leggero
ma non meno eloquente, la Bakewell cita il Philosophical Lexicon,
l’opera satirica di Daniel Dennett e Asbjørn Steglich- Petersen, in cui
viene definito come un «Heidegger» un «poderoso dispositivo per annoiare
attraverso densi strati di sostanza», come nel caso: «È sepolto così in
profondità che occorrerà un’Heidegger». A ogni modo, altri videro
questo scavatore nelle profondità della terra sotto una luce affatto
diversa. Hannah Arendt ebbe con lui una relazione appassionata negli
anni in cui fu sua allieva – e come lei, molti altri giovani
intellettuali dell’epoca trovarono in Heidegger un nuovo modo
entusiasmante di pensare alla filosofia –, e in seguito la filosofa si
espresse in difesa del suo passato nazista sostenendo che egli non fosse
un reazionario, ma semplicemente un “primitivo”. Un altro dei suoi
allievi, George Pitch, lo presentò in questi termini: «Come si potrebbe
descrivere l’uomo Heidegger? Viveva in un paesaggio in tempesta. Una
volta, mentre passeggiavamo a Hinterzarten durante un furioso temporale,
capitò che un albero venisse sradicato ad appena una decina di metri da
noi. Ne rimasi davvero colpito, come se in quel momento avessi potuto
vedere ciò che stava accadendo dentro di lui». Tuttavia, se per
Heidegger la vita consisteva in una scarpinata solitaria in una foresta
sempre più oscura, per Sartre e la de Beauvoir, quantomeno nei primi
anni, essa era piuttosto una flânerie sul Boul’Mich’.
Commentando
l’adesione di Heidegger al nazismo, nel 1944 Sartre scrisse: «Heidegger
non ha carattere; questa è la verità». Sartre invece possedeva
carattere, e parecchio, il che fu in parte il suo problema: aveva dalla
sua il fatto di essere semplicemente troppo affascinante. A vederlo, non
era davvero niente di speciale, nemmeno per Simone de Beauvoir – e
infatti guardarlo non doveva essere facile, visto che era fortemente
strabico –; tuttavia, era un personaggio immensamente attraente: uno dei
pochissimi casi di un filosofo di primissimo livello che era al tempo
stesso una celebrità mondiale. Come scrive la Bakewell, Sartre si rese
conto delle dimensioni della propria fama allorché, nell’ottobre del
1945, tenne a Parigi una conferenza pubblica per il club Maintenant: il
botteghino fu preso d’assalto, alcune persone svennero e diverse sedie
furono danneggiate. «Le didascalie sotto le fotografie per la rivista
“Time” riportavano: “Il filosofo Sartre. Donne in estasi». In un certo
senso, però, la de Beauvoir fu un personaggio ancor più formidabile
rispetto al suo compagno, e forse una pensatrice di altrettanto
spessore. La Bakewell considera Il secondo sesso, lo studio della de
Bauvoir sulla condizione delle donne nel mondo, pubblicato nel 1949,
«l’opera del movimento esistenzialista più influente di sempre». È una
dichiarazione alquanto generosa se si tratta di porre quest’opera
accanto, ad esempio, a Essere e tempo di Heidegger; senza dubbio,
dipende da che cosa si intenda per “influente”. Tuttavia, la Bakewell ha
sicuramente ragione quando scrive che il “secondo sesso” vive gran
parte della vita in uno stato di mauvaise foi sartriana, «fingendo di
essere degli oggetti», e che quindi vi è una lotta che divampa in ogni
donna, «e in virtù di questo la de Beauvoir riteneva che il problema di
come essere donna fosse la questione esistenzialista per eccellenza».
Al
caffè degli esistenzialisti è uno studio eccezionalmente ricco,
istruttivo, garbatamente colto e deliziosamente umoristico di un periodo
affascinante nella tormentata storia del XX secolo. La Bakewell è
riuscita a trovare una giusta combinazione di entusiasmo, ammirazione e
irriverenza, senza mai timore di ironizzare sul tema trattato; i
riferimenti da lei forniti spaziano da Kierkegaard a Ridley Scott, da
Emmanuel Lévinas a Radiazioni BX: distruzione uomo. Sebbene esprima
alcune riserve sull’importanza dell’esistenzialismo nel lungo termine –
«Forse è proprio la fenomenologia […]la vera scuola di pensiero
radicale» –, la Bakewell ne ribadisce però il valore in quanto modo di
pensare a che cosa significhi essere umani. Scrive infatti: «Possiamo
esplorare le vie che gli esistenzialisti ci indicano, senza ritenerli
necessariamente delle personalità esemplari, come pure dei pensatori da
prendere a modello. Sono pensatori interessanti, cosa che credo li renda
degni di ogni nostro sforzo».
– Traduzione di Michele Zurlo
Sarah Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti , traduzione di Michele Zurlo, Fazi, Roma,
pagg.
470, € 20. Oggi a BookCity, al teatro Franco Parenti, Milano, ore 13,
presentazione con l’autrice, Mauro Bonazzi, Armando Massarenti, Gianni
Vattimo