Il Sole 20.11.16
Siria e Iraq
Che cosa verrà dopo l’Isis? Il populismo mediorientale
di Alberto Negri
C’è
stato un tempo in cui Siria e Iraq erano ancora il nome di due Paesi,
di due nazioni, non soltanto di guerre infinite. La Siria da cinque anni
e l’Iraq da due decenni sono il luogo di massacri indicibili e che pure
abbiamo testimoniato. Siria e Iraq ormai esistono quasi soltanto con un
acronimo, il Siraq, che a sua volta ne rievoca un altro, l’Af-Pak.
La
geopolitica non manca di fantasia: come chiameremo tra un po’ di tempo
la Libia divisa da tra Tripolitania e Cirenaica? E forse avremo ancora
uno Yemen del Nord e uno del Sud, questa volta non separati delle
ideologie ma dal settarismo. E’ un’illusione che la sconfitta del
Califfato porterà a soluzioni pacifiche: la guerra al terrorismo verrà
sostituita da altri conflitti perché lo Stato Islamico non è la causa ma
il sintomo della disgregazione di popoli.
La Russia stessa e gli
Stati Uniti non hanno per niente le idee chiare sul da farsi, se non al
massimo dividere i contendenti e mantenere le sfere di influenza
rappresentate da basi militari, qualche pipeline e dagli interessi
economici che fanno di alcuni attori regionali dei clienti di primo
piano delle loro industrie belliche. Quando spiegheranno a Trump che gli
Usa hanno sette basi militari nel Golfo e la Sesta Flotta in Bahrein a
guardia delle rotte del petrolio, che l’Arabia Saudita è il terzo Paese
del mondo per acquisti di armi, comprate per il 90% dagli Usa, è
possibile che alcune dichiarazioni di campagna elettorale appariranno
effimere.
Si aspetta soltanto il momento in cui questi stati
verranno definitivamente frantumati in entità diverse, magari riuniti
sotto il nome che avevano prima come in una sorta di fiction ereditata
dalla spartizione anglo-francese del secolo scorso per nascondere la
realtà di un mondo di ex stati, popoli e Paesi. Solo israeliani e
palestinesi non riescono a separarsi, al punto da fare apparire quasi
obsoleta la formula “due popoli e due stati”. Ma anche la separazione è
complicata, l’ha evocata recentemente a Washington il governatore di
Kirkuk se i curdi non si metteranno d’accordo con il governo centrale di
Baghdad.
La nuvola nera dei pozzi petroliferi incendiati
dall'Isis che avvolge adesso Mosul e dintorni è un avvertimento che gli
interessi sulla spartizione delle risorse saranno determinanti, qui come
in Siria e in Libia. E pensare che il 1989 era finito con il crollo del
Muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie. Eppure proprio
quell’anno Slobodan Milosevic, celebrando i 600 anni della battaglia di
Kosovo Polje, il Campo dei Merli, dava il via alla disgregazione della
Jugoslavia di Tito che si è poi propagata nel tempo all’Est Europa fino
all’Ucraina. Ma allora tutti correvano a Berlino a prendere un pezzo di
Muro come un souvenir della fine della storia. C’è stato un tempo in cui
si volevano costruire degli stati e addirittura sovranazionali che
contenessero, etnie, culture, lingue diverse. Egitto e Siria provarono
la riunificazione sotto il laico Nasser a fine anni'50 mentre si
diffondeva l'ideologia panaraba del partito Baath fondato da un
cristiano ortodosso e da un musulmano sunnita che accomunò per un breve
periodo Damasco e Baghdad. Non sono finiti soltanto gli stati, sono
finiti i popoli stessi, intesi come volontà di vivere insieme e di
condivisione di una comunità politica e sociale. La caduta dei
dittatori, da Saddam Hussein alle primavere arabe, ha mascherato con la
loro fine il tramonto dell'era post-coloniale e dello stato-nazione che
teneva a bada con metodi autocratici i tribalismi. Oggi si punta a
creare entità autonome settarie o etnicamente pure basate su giuste
rivendicazioni ma che si privano di pezzi di storia comune per
giustificare la loro esistenza o ne resuscitano un'altra ormai
archiviata. Anche la crisi della Turchia di Erdogan risponde a questa
tendenza: quella di uno stato-nazione che ha dovuto rassegnarsi quasi un
secolo fa all’identità turca per sopravvivere al crollo di un’Impero
ottomano che era molto di più che turco. Al punto che oggi per contenere
i curdi la Turchia ricorre alla violenza e all’espansione militare
oltre i suoi confini. Non è un segnale di forza ma di debolezza. Finiti i
popoli, con la loro complessità, ricchezza e molteplicità, è rimasto
però anche qui in Medio Oriente il populismo, l’estremo tentativo di
dare un senso purchessia a qualche cosa che si è esaurito, una sorta di
degenerazione finale, accompagnata dalla menzogna che “puri” si vive
meglio.