Il Sole 25.11.16
L’altolà doveroso europeo alla Turchia di Erdogan
di Vittorio Emanuele Parsi
Finalmente
l’Unione Europea batte un colpo sullo sconcio della sempre più
approssimativa e pericolante democrazia turca. Attraverso un voto quasi
unanime del Parlamento riunito a Strasburgo (478 favorevoli, 37
contrari, 107 astenuti) ha chiesto alla Commissione e agli Stati membri
di congelare temporaneamente le trattative di adesione della Turchia
all’Unione. Si tratta del primo passo ufficiale concreto da parte di
un’istituzione della Ue da quando è cominciata (e non si è mai
interrotta) l’infinita serie di purghe messe in atto dalle autorità
turche “in risposta” al fallito e mai chiarito golpe del 15 luglio
scorso.
Il presidente Erdogan ha tuonato sulla “non validità” del
voto dell’Europarlamento – non si capisce con quale autorità e su che
base sia stato emesso il giudizio – mentre le azioni di intimidazione e
vera e propria repressione da parte del suo regime nei confronti di ogni
forma di critica e opposizione continua senza sosta. Alle decine di
migliaia di militari, magistrati, docenti universitari e professori,
funzionari pubblici, giornalisti, imam, e persino imprenditori
arrestati, incriminati, licenziati, sospesi dal servizio si sono
aggiunti la chiusura di giornali, radio, tv e siti internet, e la revoca
dell’immunità parlamentare per oltre un centinaio di rappresentanti, in
gran parte appartenenti al partito curdo (Hdp).
In realtà, nel
corso degli ultimi anni, dall’involuzione autoritaria che il regime ha
conosciuto a partire dallo sgombero violento e ingiustificato di Gezi
Park nel giugno del 2013, la rotta di allontanamento dall’Europa
intrapresa scientemente da Erdogan non ha mai conosciuto vacillamenti.
Da quando poi il “Reis” (dal titolo del bel libro che Marta Ottaviani
dedica al presidente turco) è diventato presidente, la direzione è
apparsa semmai sempre più segnata.
Lo stesso accordo stretto con
l’Unione per riprendersi in cambio di denaro i profughi illegalmente
giunti in Grecia e nei Balcani attraverso la Turchia è stato un passo
che ha sancito il cambiamento di prospettiva (peraltro bilateralmente
accettato) sulla questione dell’adesione turca all’Unione. È chiaro che
un Paese seriamente candidato a diventare un membro a pieno titolo della
Ue non avrebbe mai accettato un accordo in sé umiliante: «Io ti pago e
tu fai il lavoro sporco per me». Allo stesso modo, l’Unione era ben
consapevole che i termini dell’accordo avrebbero di fatto sancito
l’ulteriore allontanamento della Turchia dalla prospettiva dell’Unione:
in nessun fidanzamento che si rispetti lo sposo paga la futura consorte
per qualche lavoretto sconcio e sottobanco.
Erdogan solleva
polvere a uso interno, quindi, per alimentare il nazionalismo sempre più
claustrofobico con il quale cerca di occultare i costi proibitivi delle
proprie ambizioni, velleitarie e megalomani, a una popolazione
imbesuita dal culto della personalità e peraltro ogni giorno sempre meno
in grado di accedere a fonti alternative e libere di informazioni.
Il
rallentamento della crescita dell’economia turca è una realtà che si
associa a un indebolimento della valuta contro la quale la Banca
Centrale ha appena deciso un innalzamento dei tassi di interesse che ha
fatto imbufalire il presidente. Ed Erdogan sa fin troppo bene quanto la
buona performance economica associata (e non necessariamente
ascrivibile) ai suoi primi governi sia stata decisiva per la sua ascesa.
Nel
frattempo il Paese è scosso da attentati sempre più frequenti e
numerosi (l’ultimo ieri ad Adana, vicino al palazzo del governatore),
anch’essi frutto almeno in parte delle sue spregiudicate e fin qui
inconcludenti mosse politiche. Dopo il repentino voltafaccia del 2013,
quando Erdogan chiuse ogni spiraglio di apertura verso i curdi allo
scopo di penalizzare l’Hdp, “reo” di avergli sottratto il controllo
totale del Parlamento, il Kurdistan è nuovamente in fiamme e sono
ripresi gli attentati. A questi si sommano le attività dello Stato
Islamico, la cui presenza è stata a lungo tollerata nel Paese e che ora
il Reis ha scaricato.
Da questa estate Erdogan ha infatti cambiato
cavallo, sempre nel malriuscito tentativo di esercitare un’influenza
nella regione, riavvicinandosi alla Russia di Vladimir Putin (al quale
dovrebbe la telefonata che gli ha salvato la vita il 15 luglio), facendo
peraltro irritare Washington, la Nato e anche l’Unione Europea. Il
nuovo sodalizio è però già messo duro a prova. Ieri Ankara ha accusato
Damasco di essere responsabile del bombardamento aereo che ha causato la
morte di tre suoi soldati (e il ferimento di dieci) avvenuto comunque
in territorio siriano. Vedremo le reazioni di Mosca, certo, ma vedremo
anche se
Mosca alzerà un improbabile disco verde a una rappresaglia turca.