giovedì 3 novembre 2016

Il Sole 24.10.16
Un passo indietro per il libero scambio chiunque vinca
di Gianluca Di Donfrancesco

A rischio l’intesa con i Paesi del Pacifico Poche chance per quella con la Ue
Dall’insofferenza per l’euro al rallentamento del commercio mondiale, dalle rilocalizzazioni alla Brexit, la globalizzazione è in regressione in tutto il mondo. Ma il colpo più forte potrebbe arrivare proprio dal Paese che ne ha fatto una bandiera: quegli Stati Uniti che hanno costruito e sostenuto l’architettura del multilateralismo dopo la Seconda guerra mondiale, che hanno propagandato il libero scambio come chiave per la prosperità e l’ordine mondiale, che hanno persuaso Paesi come la Cina a entrare nella Wto e dove ora la critica al commercio internazionale è diventata bipartisan. Mai come in queste presidenziali il tema è stato al centro della campagna elettorale e raramente come in questa fase l’America sembra tentata dal protezionismo.
Con gradazioni diverse, bellicose nel caso del repubblicano Donald Trump, più sfumate nel caso della democratica Hillary Clinton, entrambi i pretendenti si dicono pronti a correggere la politica commerciale statunitense. Inseguendo il voto della middle class, o almeno di quella parte che si sente impoverita dalla globalizzazione, Trump si spinge fino a promettere la revisione di tutti i trattati già firmati e a minacciare l’uscita dall’Organizzazione mondiale per il commercio, così da riportare a casa i posti di lavoro «rubati» da Paesi come Cina e Messico. Clinton, da parte sua, prende le distanze da un pilastro della recente agenda della Casa Bianca come la Trans Pacific Partnership (Tpp), che, da segretario di Stato, aveva promosso in prima persona, definendola il «gold standard» per gli accordi di libero scambio. E promette di nominare uno speciale “procuratore commerciale”, incaricato di vigilare sui trattati già in essere a tutela degli «american jobs».
Chiunque si aggiudichi la corsa alla Casa Bianca, per il resto del mondo ci sarà il rischio di fare i conti con una economia, l’attuale prima al mondo, più chiusa rispetto al passato, addirittura tentata dal mercantilismo, se a spuntarla fosse Trump. «Non c’è da sbagliarsi, le politiche commerciali di entrambi i candidati si allontanano enormemente dalle posizioni condivise per decenni», avverte Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics.
Una svolta dalle conseguenze difficilmente prevedibili, non solo sul versante economico, dato che sulla penetrazione dei mercati mondiali gli Stati Uniti hanno costruito buona parte della leadership politica. Proprio la Tpp, per esempio, nasce soprattutto come strumento per arginare l’egemonia cinese in Asia, attraverso la creazione di un’area di libero scambio tra 12 Paesi che si affacciano sul Pacifico e che esclude appunto Pechino. Tra i membri ci sono storici alleati degli Stati Uniti che non potrebbero non interpretare un passo indietro sull’accordo come una dichiarazione di disimpegno nell’area. E potrebbero essere tentati di cedere al corteggiamento e alle pressioni della futura prima economia del mondo, la Cina, che avrebbe così campo aperto per le proprie ambizioni. Per dirla con le parole del premier di Singapore, Lee Hsien Loong, «il fallimento della Tpp significherebbe una Cina più forte e peggiori condizioni per merci e servizi Usa». E per il premier neozelandese, John Key, «se gli Usa abdicheranno al ruolo di leader nella regione, qualcun altro prenderà il loro posto».
Nel caso della Tpp, sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti rigettano un accordo già chiuso e in attesa della sola ratifica del Congresso. E se appare segnato il destino di questa intesa, non potrà andar meglio all’altro mega accordo commerciale in discussione, la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) con l’Unione europea, sulla quale per la verità né Trump né Clinton si sono pronunciati apertamente, ma che già oggi sembra destinata al naufragio.
Dal 1979, l’industria americana ha perso 7 milioni di posti di lavoro. Secondo molti economisti a distruggerli è stata la tecnologia, secondo altri, invece, l’apertura degli scambi ha imposto un dazio pesante sui settori meno specializzati, soprattutto i tessile e l’arredo, più esposti alla competizione di Paesi con basso costo della manodopera. Lo scorso anno, gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di 500 miliardi di dollari, in gran parte accumulato con la Cina. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, condotto a ottobre tra 5mila lavoratori, l’80% ha indicato la delocalizzazione delle fabbriche all’estero come la minaccia più preoccupante, seguita a ruota dalle importazioni a basso costo.
È su queste paure che fa leva Trump quando promette di fare carta straccia delle intese commerciali esistenti con 20 Paesi, a partire dal Nafta con Canada e Messico, «il peggior accordo mai approvato dagli Stati Uniti», come lo ha definito. Oppure quando minaccia di imporre dazi del 45% sulle importazioni dalla Cina, accusata di «manipolare lo yuan», e del 35% su quelle dal Messico, per scoraggiare le imprese statunitensi dal trasferire le proprie fabbriche a Sud della frontiera. Misure protezionistiche che non solo verrebbero bocciate dalla Wto, ma innescherebbero ritorsioni che potrebbero sfociare in una guerra commerciale, con il rischio, secondo il Peterson Institute, di spingere gli Usa in recessione e paradossalmente di distruggere oltre quattro milioni di posti di lavoro anziché crearne. Quasi 400mila posti andrebbero in fumo per esempio in Texas, uno degli Stati in cui Trump sembra favorito.
Ma è sullo stesso disagio che strizza l’occhio Clinton, quando si rimangia l’appoggio al Tpp, ipotizza una sorta di super-poliziotto contro i crimini commerciali dei partner e promette di triplicare i funzionari incaricati di individuare le scorrettezze. Secondo il Peterson Institute, le proposte della candidata democratica sarebbero meno controproducenti di quelle del rivale, ma comunque negative per l’economia Usa.
Non manca chi è pronto a scommettere che da presidente, Hillary Clinton possa mettere da parte la retorica e cambiare nuovamente linea. Nel 1992, Bill si oppose con fermezza al Nafta, per poi spingere per farlo approvare una volta eletto. Replicare questo schema, sarebbe però più difficile per Hillary. In parte perché la sua immagine di leader affidabile è già appannata, in parte perché deve fare i conti con la minoranza interna, guidata dall’ex sfidante per la nomination, quel Bernie Sanders battuto ma non domo, pronto a mobilitare i suoi in stile Tea-Party. Per ironia della sorte, secondo alcuni sondaggi, la maggior parte degli americani è a favore degli accordi commerciali, soprattutto tra gli elettori del Partito democratico. Altra ironia: l’ondata di rigetto per la globalizzazione arriva in una fase di grande debolezza del commercio internazionale, tornato crescere meno del Pil nel 2015 dopo molti anni. Negli Stati Uniti, il valore degli scambi commerciali è sceso di 200 miliardi di dollari l’anno scorso e di altri 470 nei primi nove mesi del 2016.