Il Sole 24.10.16
Un passo indietro per il libero scambio chiunque vinca
di Gianluca Di Donfrancesco
A rischio l’intesa con i Paesi del Pacifico Poche chance per quella con la Ue
Dall’insofferenza
per l’euro al rallentamento del commercio mondiale, dalle
rilocalizzazioni alla Brexit, la globalizzazione è in regressione in
tutto il mondo. Ma il colpo più forte potrebbe arrivare proprio dal
Paese che ne ha fatto una bandiera: quegli Stati Uniti che hanno
costruito e sostenuto l’architettura del multilateralismo dopo la
Seconda guerra mondiale, che hanno propagandato il libero scambio come
chiave per la prosperità e l’ordine mondiale, che hanno persuaso Paesi
come la Cina a entrare nella Wto e dove ora la critica al commercio
internazionale è diventata bipartisan. Mai come in queste presidenziali
il tema è stato al centro della campagna elettorale e raramente come in
questa fase l’America sembra tentata dal protezionismo.
Con
gradazioni diverse, bellicose nel caso del repubblicano Donald Trump,
più sfumate nel caso della democratica Hillary Clinton, entrambi i
pretendenti si dicono pronti a correggere la politica commerciale
statunitense. Inseguendo il voto della middle class, o almeno di quella
parte che si sente impoverita dalla globalizzazione, Trump si spinge
fino a promettere la revisione di tutti i trattati già firmati e a
minacciare l’uscita dall’Organizzazione mondiale per il commercio, così
da riportare a casa i posti di lavoro «rubati» da Paesi come Cina e
Messico. Clinton, da parte sua, prende le distanze da un pilastro della
recente agenda della Casa Bianca come la Trans Pacific Partnership
(Tpp), che, da segretario di Stato, aveva promosso in prima persona,
definendola il «gold standard» per gli accordi di libero scambio. E
promette di nominare uno speciale “procuratore commerciale”, incaricato
di vigilare sui trattati già in essere a tutela degli «american jobs».
Chiunque
si aggiudichi la corsa alla Casa Bianca, per il resto del mondo ci sarà
il rischio di fare i conti con una economia, l’attuale prima al mondo,
più chiusa rispetto al passato, addirittura tentata dal mercantilismo,
se a spuntarla fosse Trump. «Non c’è da sbagliarsi, le politiche
commerciali di entrambi i candidati si allontanano enormemente dalle
posizioni condivise per decenni», avverte Adam Posen, presidente del
Peterson Institute for International Economics.
Una svolta dalle
conseguenze difficilmente prevedibili, non solo sul versante economico,
dato che sulla penetrazione dei mercati mondiali gli Stati Uniti hanno
costruito buona parte della leadership politica. Proprio la Tpp, per
esempio, nasce soprattutto come strumento per arginare l’egemonia cinese
in Asia, attraverso la creazione di un’area di libero scambio tra 12
Paesi che si affacciano sul Pacifico e che esclude appunto Pechino. Tra i
membri ci sono storici alleati degli Stati Uniti che non potrebbero non
interpretare un passo indietro sull’accordo come una dichiarazione di
disimpegno nell’area. E potrebbero essere tentati di cedere al
corteggiamento e alle pressioni della futura prima economia del mondo,
la Cina, che avrebbe così campo aperto per le proprie ambizioni. Per
dirla con le parole del premier di Singapore, Lee Hsien Loong, «il
fallimento della Tpp significherebbe una Cina più forte e peggiori
condizioni per merci e servizi Usa». E per il premier neozelandese, John
Key, «se gli Usa abdicheranno al ruolo di leader nella regione, qualcun
altro prenderà il loro posto».
Nel caso della Tpp, sarebbe la
prima volta che gli Stati Uniti rigettano un accordo già chiuso e in
attesa della sola ratifica del Congresso. E se appare segnato il destino
di questa intesa, non potrà andar meglio all’altro mega accordo
commerciale in discussione, la Transatlantic Trade and Investment
Partnership (Ttip) con l’Unione europea, sulla quale per la verità né
Trump né Clinton si sono pronunciati apertamente, ma che già oggi sembra
destinata al naufragio.
Dal 1979, l’industria americana ha perso 7
milioni di posti di lavoro. Secondo molti economisti a distruggerli è
stata la tecnologia, secondo altri, invece, l’apertura degli scambi ha
imposto un dazio pesante sui settori meno specializzati, soprattutto i
tessile e l’arredo, più esposti alla competizione di Paesi con basso
costo della manodopera. Lo scorso anno, gli Stati Uniti hanno registrato
un deficit commerciale di 500 miliardi di dollari, in gran parte
accumulato con la Cina. Secondo un sondaggio del Pew Research Center,
condotto a ottobre tra 5mila lavoratori, l’80% ha indicato la
delocalizzazione delle fabbriche all’estero come la minaccia più
preoccupante, seguita a ruota dalle importazioni a basso costo.
È
su queste paure che fa leva Trump quando promette di fare carta straccia
delle intese commerciali esistenti con 20 Paesi, a partire dal Nafta
con Canada e Messico, «il peggior accordo mai approvato dagli Stati
Uniti», come lo ha definito. Oppure quando minaccia di imporre dazi del
45% sulle importazioni dalla Cina, accusata di «manipolare lo yuan», e
del 35% su quelle dal Messico, per scoraggiare le imprese statunitensi
dal trasferire le proprie fabbriche a Sud della frontiera. Misure
protezionistiche che non solo verrebbero bocciate dalla Wto, ma
innescherebbero ritorsioni che potrebbero sfociare in una guerra
commerciale, con il rischio, secondo il Peterson Institute, di spingere
gli Usa in recessione e paradossalmente di distruggere oltre quattro
milioni di posti di lavoro anziché crearne. Quasi 400mila posti
andrebbero in fumo per esempio in Texas, uno degli Stati in cui Trump
sembra favorito.
Ma è sullo stesso disagio che strizza l’occhio
Clinton, quando si rimangia l’appoggio al Tpp, ipotizza una sorta di
super-poliziotto contro i crimini commerciali dei partner e promette di
triplicare i funzionari incaricati di individuare le scorrettezze.
Secondo il Peterson Institute, le proposte della candidata democratica
sarebbero meno controproducenti di quelle del rivale, ma comunque
negative per l’economia Usa.
Non manca chi è pronto a scommettere
che da presidente, Hillary Clinton possa mettere da parte la retorica e
cambiare nuovamente linea. Nel 1992, Bill si oppose con fermezza al
Nafta, per poi spingere per farlo approvare una volta eletto. Replicare
questo schema, sarebbe però più difficile per Hillary. In parte perché
la sua immagine di leader affidabile è già appannata, in parte perché
deve fare i conti con la minoranza interna, guidata dall’ex sfidante per
la nomination, quel Bernie Sanders battuto ma non domo, pronto a
mobilitare i suoi in stile Tea-Party. Per ironia della sorte, secondo
alcuni sondaggi, la maggior parte degli americani è a favore degli
accordi commerciali, soprattutto tra gli elettori del Partito
democratico. Altra ironia: l’ondata di rigetto per la globalizzazione
arriva in una fase di grande debolezza del commercio internazionale,
tornato crescere meno del Pil nel 2015 dopo molti anni. Negli Stati
Uniti, il valore degli scambi commerciali è sceso di 200 miliardi di
dollari l’anno scorso e di altri 470 nei primi nove mesi del 2016.