giovedì 3 novembre 2016

Il Sole 24.10.16
Le soluzioni saranno peggiori dei mali
di Riccardo Sorrentino

Pace e soft power. Questa è la vera posta in gioco, oggi che a Washington torna l’antico desiderio del protezionismo, sulla spinta di una campagna elettorale decisamente “fuori tema”. Dietro le politiche della globalizzazione, volute e guidate dagli Stati e in particolare dagli Usa, la priorità è stata infatti quella di creare interdipendenza tra le varie economie, e solo in secondo piano, in via strumentale, la diffusione del libero commercio. L’interdipendenza è un fattore potente: al tempo stesso è causa e freno delle tensioni tra i Paesi. Per capirlo, basti guardare - a parte le cronache quotidiane sull’Unione europea - al confronto tra Pechino e Washington nel mar della Cina meridionale, che non a caso è stato chiamato “guerra fresca” per distinguerlo dalla “guerra fredda” con il blocco sovietico, molto più isolato.
Cina e Usa hanno ciascuno bisogno dell’altro sul piano economico, e questo disincentiva fortemente - insieme alla deterrenza nucleare - l’esplosione di un conflitto aperto. Quando nel 1914 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania scivolò in una crisi che precedette e durò più a lungo della Grande depressione Usa: i due Paesi erano ciascuno il secondo miglior cliente dell’altro. Dopo il crollo del mondo sovietico, la globalizzazione - che politici, imprese e cittadini americani hanno accettato senza entusiasmi - ha avuto proprio lo scopo di costruire consenso attorno al Primo mondo. Ancora oggi la Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, giustifica il suo ruolo anche facendo riferimento a un mondo pacifico, in cui «il rischio di dispute che sfocino in conflitti politici e militari è ridotto». Il libero commercio, paradossalmente, è stato un fattore secondario, strumentale. Se ben introdotto, con la giusta sequenza di interventi, e tenendo conto del peso di oligopoli e monopoli, è un gioco a somma positiva: più o meno, guadagnano tutti. Può essere dunque un collante politico forte.
Il sistema non è stato però costruito in modo coerente. L’apertura dell’economia cinese, avvenuta senza che lo yuan potesse reagire sul mercato al gioco della domanda e dell’offerta, ha per esempio creato una disimmetria dolorosa per i lavoratori dei Paesi ricchi. L’intesa Wto sulla proprietà intellettuale ha intanto diffuso nel mondo i monopoli - temporanei ma molto lunghi - generati da licenze e brevetti che hanno spinto le aziende a comportamenti di rent-seeking (ricerca di rendita) molto dannosi: quanti investimenti nei Paesi avanzati, ci si chiede oggi, sono stati diretti verso questi “beni artificiali” a scapito dei classici investimenti produttivi? Quanta innovazione è stata frenata? Quante risorse sono andate disperse per la difesa di questi monopoli? Quanta diseguaglianza - un altro tema politicamente sensibile - hanno contribuito a generare? I mille inconvenienti legati a “questa” globalizzazione sono allora molto reali. Il problema è che le soluzioni protezionistiche individuate da Trump e Clinton - ma anche da altri politici, si pensi alla britannica Theresa May - vanno in una direzione che non li risolve, e peggiora le cose. Anche sul piano della stabilità politica internazionale.