Il Sole 24.10.16
Le soluzioni saranno peggiori dei mali
di Riccardo Sorrentino
Pace
e soft power. Questa è la vera posta in gioco, oggi che a Washington
torna l’antico desiderio del protezionismo, sulla spinta di una campagna
elettorale decisamente “fuori tema”. Dietro le politiche della
globalizzazione, volute e guidate dagli Stati e in particolare dagli
Usa, la priorità è stata infatti quella di creare interdipendenza tra le
varie economie, e solo in secondo piano, in via strumentale, la
diffusione del libero commercio. L’interdipendenza è un fattore potente:
al tempo stesso è causa e freno delle tensioni tra i Paesi. Per
capirlo, basti guardare - a parte le cronache quotidiane sull’Unione
europea - al confronto tra Pechino e Washington nel mar della Cina
meridionale, che non a caso è stato chiamato “guerra fresca” per
distinguerlo dalla “guerra fredda” con il blocco sovietico, molto più
isolato.
Cina e Usa hanno ciascuno bisogno dell’altro sul piano
economico, e questo disincentiva fortemente - insieme alla deterrenza
nucleare - l’esplosione di un conflitto aperto. Quando nel 1914 la Gran
Bretagna dichiarò guerra alla Germania scivolò in una crisi che
precedette e durò più a lungo della Grande depressione Usa: i due Paesi
erano ciascuno il secondo miglior cliente dell’altro. Dopo il crollo del
mondo sovietico, la globalizzazione - che politici, imprese e cittadini
americani hanno accettato senza entusiasmi - ha avuto proprio lo scopo
di costruire consenso attorno al Primo mondo. Ancora oggi la Wto,
l’Organizzazione mondiale del commercio, giustifica il suo ruolo anche
facendo riferimento a un mondo pacifico, in cui «il rischio di dispute
che sfocino in conflitti politici e militari è ridotto». Il libero
commercio, paradossalmente, è stato un fattore secondario, strumentale.
Se ben introdotto, con la giusta sequenza di interventi, e tenendo conto
del peso di oligopoli e monopoli, è un gioco a somma positiva: più o
meno, guadagnano tutti. Può essere dunque un collante politico forte.
Il
sistema non è stato però costruito in modo coerente. L’apertura
dell’economia cinese, avvenuta senza che lo yuan potesse reagire sul
mercato al gioco della domanda e dell’offerta, ha per esempio creato una
disimmetria dolorosa per i lavoratori dei Paesi ricchi. L’intesa Wto
sulla proprietà intellettuale ha intanto diffuso nel mondo i monopoli -
temporanei ma molto lunghi - generati da licenze e brevetti che hanno
spinto le aziende a comportamenti di rent-seeking (ricerca di rendita)
molto dannosi: quanti investimenti nei Paesi avanzati, ci si chiede
oggi, sono stati diretti verso questi “beni artificiali” a scapito dei
classici investimenti produttivi? Quanta innovazione è stata frenata?
Quante risorse sono andate disperse per la difesa di questi monopoli?
Quanta diseguaglianza - un altro tema politicamente sensibile - hanno
contribuito a generare? I mille inconvenienti legati a “questa”
globalizzazione sono allora molto reali. Il problema è che le soluzioni
protezionistiche individuate da Trump e Clinton - ma anche da altri
politici, si pensi alla britannica Theresa May - vanno in una direzione
che non li risolve, e peggiora le cose. Anche sul piano della stabilità
politica internazionale.