Il Sole 19.11.16
La Cina non è economia di mercato
di Paolo Bricco
No,
la Cina non è una economia di mercato. E non si va in guerra con il
fucile della PlayStation. L’impostazione di Bruxelles nella riforma
della normativa anti-dumping sta dando vita a un corpus giuridico
slabbrato e incoerente e sta generando un profilo politico velleitario e
fragile.
Le nuove mappe del capitalismo globale non possono
essere tracciate dall’Unione europea con la matita spezzata
dell’ambiguità e del vantaggio di alcuni a discapito dell’interesse di
tutti. La decisione di frammentare i criteri in base ai settori, per
scegliere se applicare o no i dazi. Non va bene. E avvantaggia
soprattutto la Cina. L’istituzione di procedure lunghe e complesse. Non
va bene. E, indirettamente, avvantaggia la Cina. L’onere della prova a
carico di chi ritiene di subire una distorsione della concorrenza. Non
va bene. E avvantaggia di nuovo la Cina. In più, la concentrazione di
una parte della procedura in capo alle direzioni generali di Bruxelles.
Non funziona. E avvantaggia di nuovo, indirettamente, la Cina. A
emergere è una visione allo stesso minimalista e neo-burocratica della
tutela della manifattura europea. Mentre nel mare aperto dei mercati
globali si stanno ingrossando le onde di una politica di potenza fatta
di guerre industriali e commerciali, la Vecchia Europa – condizionata
dai Paesi con una specializzazione produttiva più basata sui servizi e
meno sulla manifattura - erige barriere difensive che si possono
sfarinare al primo stormir di fronda. La Cina, ma anche la Russia e
l’India. Con, in più, il grande punto di domanda degli Stati Uniti di
Trump. La fase storica è nuova. Tutti stiamo entrando in una terra
incognita. In un passaggio così delicato, l’Europa ha pensato bene di
istituire una riforma della normativa comunitaria anti-dumping
formalistica e piena di buone intenzioni, professorale e poco concreta.
Una riforma che sembra un’arma spuntata, soprattutto nei confronti di
quella Cina che sta combattendo con ogni mezzo per vedersi accreditato
lo status di economia di mercato. Oggi ci sono 84 restrizioni
commerciali (72 antidumping e 12 antisussidi), 62 delle quali verso la
Cina. Non sono mai state così tante. Eppure, con la nuova impostazione
scelta da Bruxelles a cui il Governo italiano si sta opponendo, questi
dazi hanno l’aria di tasselli sparsi sul tavolo, che non si uniscono né
mai combaciano, con il risultato che l’intero disegno difensivo perde
forza e coerenza. Basti pensare che la riforma, focalizzando
l’attenzione sui singoli comparti produttivi, elimina alla radice –
nelle scelte operative su come istituire i dazi – la distinzione fra
economie di mercato e economie non di mercato. Il commissario Ue per il
commercio Cecilia Malmström può sgolarsi finché vuole sostenendo, come
ha fatto ieri a Milano, che «la Cina non è una economia di mercato, non
lo sarà domani e non lo sarà neppure entro la fine dell’anno». Che cosa
cambia, se nei fatti le nuove procedure per la definizione o meno delle
restrizioni commerciali non considerano più questo elemento un problema?
Nella politica economica serve concretezza. L’ambiguità dell’Unione
europea non può essere accettata. Può andare bene ai Paesi del Nord
Europa, che hanno una struttura produttiva più basata sul terziario e
che gravitano, economicamente e culturalmente, intorno a quella Gran
Bretagna peraltro impegnata ad attuare la Brexit. Può forse andare bene
alla Germania, che ha investimenti rilevanti in Cina e le cui imprese
estraggono valore delle loro partecipazioni con le partite infragruppo,
portando utili dalle consociate asiatiche alle case madri anche grazie
allo sguardo benevolo di Pechino. Ma, di certo, fa male all’industria
europea nel suo complesso. Resta strategica la costruzione di una
identità europea in cui la fabbrica è centrale. Soltanto una Bruxelles
malamente condizionata dagli interessi particolari di alcuni Stati
membri e accecata dalla paura del mondo che cambia può dire di no,
all’improvviso e con esiti tutti da decrittare, a questa buona tendenza
di lungo periodo.