Il Sole 13.11.16
In quel voto liberatorio la Waterloo del politicamente corretto
di Luca Ricolfi
I
media di tutto il mondo sono in lutto, e non cessano di
autoflagellarsi: non abbiamo capito che Hillary Clinton poteva perdere,
non abbiamo capito l’ampiezza del consenso a Donald Trump, non abbiamo
capito il disagio degli elettori bianchi della classe media e operaia
americana.
Questa autoflagellazione può avere qualche utilità (un
bagno di umiltà non fa mai male), ma ho l’impressione che sia
leggermente fuori bersaglio.
Innanzitutto sul presunto clamoroso
errore dei sondaggi. Sì, i sondaggi degli ultimi giorni davano un
leggero vantaggio alla Clinton, ed è molto probabile che i sondaggisti
americani non li abbiano aggiustati (o li abbiano aggiustati troppo
poco) per tenere conto del cosiddetto “effetto desiderabilità sociale”,
un fenomeno noto da almeno 25 anni, ma che non si è ancora imparato a
trattare efficacemente dal punto di vista statistico: l’elettore che
preferisce un’alternativa che molti considerano squalificante tende a
non rivelarsi nelle interviste, salvo poi esprimersi nel segreto
dell’urna. E tuttavia, a ben guardare i dati, l’errore commesso dai
sondaggisti non è così clamoroso: Hillary Clinton, data leggermente in
vantaggio su Trump negli ultimi sondaggi, ha raccolto più e non meno
consensi del rivale, ed è stata solo la distribuzione territoriale dei
voti che le ha impedito di conquistare abbastanza grandi elettori da
consentirle di accedere alla Casa Bianca. Se si contano i voti, quello
di martedì scorso è stato un sostanziale pareggio, non un trionfo di
Trump.
Ora proviamo a chiederci: se il voto avesse avuto una
distribuzione territoriale un po’ diversa, e la Clinton avesse vinto
(con i medesimi voti con cui ha perso), che cosa avrebbero scritto
quegli stessi media che ora si autoflagellano? Avrebbero speso
altrettante lacrime sui perdenti della globalizzazione, sulle tragedie
della deindustrializzazione, sul declino del ceto medio, sul disagio
degli operai bianchi?
Credo proprio di no. Oggi saremmo qui a
cantare la saggezza del popolo americano, la maturità della democrazia
statunitense, la capacità del sistema politico del più importante Paese
del mondo di fronteggiare vittoriosamente l’onda populista.
Che cosa intendo dire con questo esperimento mentale?
Quello
che vorrei provare a suggerire è che, è vero, dal punto di vista
politico la vittoria di Trump ha cambiato l’America, la vittoria della
Brexit ha cambiato l’Europa, e la eventuale vittoria del leader xenofobo
Norbert Hofer in Austria il prossimo 4 dicembre potrebbe cambiare
l’Austria. Ma dal punto di vista dell’analisi sociologica, della
riflessione sulla cultura e sul costume, nulla di sostanziale sarebbe
risultato diverso se questi tre grandi assalti all’establishment delle
forze populiste si fossero conclusi con la loro sconfitta, perché il
dato di fondo è, resta, e sarebbe comunque restato il medesimo, ovvero
la spaccatura fifty-fifty dell’elettorato: una vittoria della Clinton
non avrebbe cancellato il fatto che metà degli americani le preferisce
Trump, una vittoria di misura del Remain non avrebbe cancellato il fatto
che circa metà degli inglesi sono per la Brexit, così come una vittoria
(di misura) del candidato verde alle elezioni presidenziali austriache
non cancellerebbe il fatto che circa metà degli austriaci si è espressa
per un candidato xenofobo.
Quel che mi colpisce, in altre parole,
non è che Trump abbia vinto e sovvertito i sondaggi (cosa che mi
aspettavo), ma che abbia dovuto vincere perché qualcuno si accorgesse di
quella metà dei cittadini di cui poco si parla, ma che era già lì,
sotto gli occhi di tutti, proprio perché la maggior parte dei sondaggi
davano un testa a testa, oggi in America con le presidenziali, ieri nel
Regno Unito con il referendum sulla Brexit. È come se solo la vittoria
elettorale avesse il magico potere di spostare l’attenzione su una
enorme porzione dell’elettorato, di cui si conosce perfettamente
l’esistenza ma che, stranamente, non si prende in considerazione finché
un leader non se ne fa interprete e riesce a conquistare il potere
politico.
Da questo punto di vista le vittorie della Brexit e di
Trump hanno anche un risvolto positivo: costringono le classi dirigenti
ad accorgersi anche della “seconda metà”, che fino a ieri erano
tranquillamente riuscite a ignorare. Qui, però, si incontra un altro
problema: capire chi siano gli abitanti della “seconda metà” non è
facile. Oggi in molti paiono convinti che si tratti dei perdenti della
globalizzazione, soprattutto operai bianchi le cui fabbriche hanno
chiuso o sono state delocalizzate.
I primi dati sulla composizione
del voto pro-Hillary o pro-Trump fanno però sorgere molti dubbi su
questo genere di lettura. Se si trascurano alcune categorie nettamente
pro-Hillary (donne nere e ispaniche) quel che colpisce è la
trasversalità, socio-demografica e di classe, del voto a Trump. Il voto a
Trump supera il 40% in tutte le fasce di reddito, senza grandi
differenze fra ricchi e poveri. Le differenze fra istruiti e non
istruiti, fra donne e uomini, giovani e vecchi ci sono, ma non sono mai
grandissime. Anche le categorie spesso dipinte come sostenitrici di
Hillary e ostili a Trump, forniscono un supporto elettorale tutt’altro
che residuale a Trump: le donne che lo votano sono il 42% (54% per
Hillary), i laureati il 45% (49% per Hillary), i giovani il 37% (55% per
Hillary). E persino fra gli ispanici, il voto a Trump sfiora il 30%.
Questa
trasversalità, a mio parere, ridimensiona un po’ le spiegazioni che
insistono sui danni della globalizzazione. Che la globalizzazione e il
progresso tecnologico abbiano prodotto notevoli drammi sociali è cosa
indubbia, e spesso denunciata nella letteratura, nella musica e nel
cinema (si pensi a Bruce Springsteen, o a Ken Loach). E tuttavia la
trasversalità del voto a Trump ci fa intendere che, verosimilmente, il
consenso che è riuscito a intercettare ha una matrice assai più
generale.
Ad esso, a mio parere, hanno contributo anche due
elementi ulteriori. Il primo è l’incapacità dei democratici di mantenere
la promessa di ridurre le diseguaglianze, che sono anzi leggermente
aumentate durante gli otto anni della presidenza Obama. Da questo punto
di vista, l’enfasi degli economisti progressisti sulla “crescita
esponenziale delle diseguaglianze” e la stasi del reddito dell’americano
medio è stata un boomerang politico: dopo 8 anni di Obama, il conto non
poteva essere presentato a Bush.
Il secondo, forse più
importante, fattore del successo di Trump è l’insofferenza per gli
eccessi del politicamente corretto, che in America ha largamente
oltrepassato ogni soglia del buon senso e del ridicolo. Da questo punto
di vista il voto a Trump è stato anche un gesto liberatorio, o “un
vaffa-day pazzesco”, come prontamente lo ha definito il comico Beppe
Grillo.
Ma liberazione da che cosa? E liberazione di chi?
Liberazione
dal marchio di infamia che una parte della società americana, la parte
bassa, sente sopra di sé. Spiace doverlo ricordare, ma – che lo si
voglia o no – il politicamente corretto e i suoi derivati sono
straordinarie macchine generatrici di distinzione sociale. Servono a
definire un sopra e un sotto, un alto e un basso, un “noi civili” e “voi
barbari”. Non per nulla Hillary ha definito deplorable gli elettori di
Trump e, dopo la sconfitta, non ha trovato di meglio che rivolgersi ai
suoi chiamandoli the best of America, la stessa formula («la parte
migliore del Paese») che, nell’era di Berlusconi, ha reso la sinistra
antipatica a metà degli italiani.
La trasversalità del voto a
Trump, forse, ci segnala proprio questo: che la rivolta contro
l’establishment non è solo una rivolta dei poveri contro i ricchi, o dei
perdenti contro i vincenti, e tantomeno dei ceti popolari, razzisti e
xenofobi, contro le élite illuminate e i ceti medi riflessivi. No,
quella rivolta esprime anche, se non soprattutto, il rifiuto di una
parte della società americana, che non aderisce al credo dei benpensanti
del nostro tempo, di essere stigmatizzata per le proprie idee, per i
propri sentimenti, per il proprio modo di parlare: “loro adesso la
smetteranno di chiamarci ignoranti, bigotti, razzisti, sessisti”,
dichiarava dopo la vittoria di Trump un cacciatore, pastore metodista.
Una reazione che mostra che, dietro il voto a Trump, c’è anche una sorta
di richiesta di cittadinanza, di riammissione nel consesso delle
persone degne di rispetto. Un consesso che, a quanto pare, negli ultimi
anni aveva finito per diventare un po’ troppo esclusivo.