domenica 13 novembre 2016

Corriere 13.12.16
La Cina e altri ostacoli al nuovo programma
Mercati e protezionismo, le carte ancora da scoprire
di Federico Fubini

Se c’è un punto di partenza per cercare di capire la Trump-economics, la politica economica del prossimo presidente, è che questa stagione americana è stata per tutti una scuola di umiltà.
Non ha incrinato solo la sicurezza degli analisti che davano Hillary Clinton in vantaggio, o dei grandi media che hanno passato più tempo a occuparsi delle email di un candidato o del carattere dell’altro, piuttosto che di ciò che quei due avrebbero potuto fare alla Casa Bianca. Anche alcuni economisti non devono sentirsi molto bene, dopo essersi illusi di controllare intellettualmente fenomeni la cui complessità sfugge a chiunque.
Un esempio si è avuto martedì notte mentre affluivano i risultati dai seggi, quando il premio Nobel Paul Krugman ha stilato per il New York Times due previsioni fondamentali. La prima riguardava i mercati finanziari: «Se la domanda è quando si riprenderanno (dalla vittoria di Trump, ndr), la risposta immediata è mai». La seconda riguardava l’ipotesi che la futura amministrazione repubblicana potesse cercare di rilanciare la crescita attraverso lo stimolo della spesa in deficit dal bilancio pubblico: «Nessuna possibilità».
Krugman non è neppure andato vicino a descrivere la realtà, per il momento. La settimana che si è appena chiusa ha segnato il maggiore rialzo da anni del principale indice della Borsa di New York, più 3,8%. E il primo annuncio del presidente-eletto ha riguardato un grande piano di investimenti pubblici in infrastrutture mirato a sostenere la crescita. Ricorda a prima vista ciò che proponevano lo stesso Krugman o Larry Summers, l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, benché nessuno dei due ne abbia ancora dato atto.
Krugman resta uno degli osservatori più acuti, ma la lezione è che le previsioni oggi forse non hanno molto senso. Aiuta di più cercare di capire quali sono i campi di forza attorno Trump, per capire se alcune delle sue proposte dovranno fare i conti presto o tardi con ostacoli evidenti. È per questo che probabilmente neppure il presidente-eletto per ora può dire fino a dove è in grado di arrivare.
Per esempio, nel programma dei primi cento giorni compare un’iniziativa emblematica: «Nel primo giorno del mio mandato — scrive Trump — darò indicazioni al segretario al Tesoro di designare la Cina come un Paese che manipola la propria valuta» (s’intende, per conquistare slealmente un vantaggio commerciale). Una decisione di questo tipo è stata minacciata più volte dagli Stati Uniti sotto George W. Bush e Barack Obama, e avrebbe conseguenze in linea con l’approccio protezionista di Trump. Il Tesoro americano avrebbe diritto di lanciare ritorsioni, imponendo tariffe del 25% sull’import dalla Cina. Sarebbe solo un primo passo del programma di Trump, che prevede dazi al 45% sull’import dalla seconda economia del mondo.
Resta da capire come reagirebbe Pechino anche solo a misure protezionistiche molto più timide di queste. Oggi la banca centrale cinese dispone di riserve valutarie da 3.150 miliardi di dollari, di cui due terzi in titoli di debito del governo americano o di agenzie pubbliche statunitensi. La Repubblica popolare resta il più grande creditore degli Stati Uniti e le basterebbe vendere una piccola parte dei suoi titoli del Tesoro Usa perché i prezzi dei bond sovrani americani crollino e i tassi d’interesse a medio e lungo termine s’impennino. Il danno per Wall Street e l’intera economia americana sarebbe profondo e immediato. La strada del protezionismo sembra dunque in salita di fronte al primo partner commerciale degli Stati Uniti.
Considerazioni simili riguardano i programmi di spesa pubblica e tagli radicali alle tasse di cui si parla in queste settimane. Trump non sta ereditando il governo in surplus che prese in mano Bush figlio nel 2001, né quello praticamente senza debiti che toccò a Ronald Reagan nel 1980. Oggi il deficit sta salendo e il debito è al 104% del reddito nazionale, come quello dell’Italia alla vigilia della Grande recessione. Il rischio di un aumento dei tassi dei titoli di Stato in America esiste, si è già manifestato in sintomi omeopatici questa settimana; se deflagrasse, può portare il Paese e il resto del mondo in recessione.
Né Krugman né nessun altro può dunque dire oggi ciò che farà Trump domani. Ma anche solo una parte di ciò che ha promesso, presto o tardi, rischia di esporre l’America a venti avversi.