domenica 13 novembre 2016

Il Sole 13.12.16
L’America isolazionista e l’Europa senza politica
di Sergio Fabbrini

La presidenza di Donald Trump e il controllo repubblicano del Congresso cambieranno sensibilmente l’agenda di politica interna degli Stati Uniti. Le principali politiche pubbliche promosse dalle presidenze di Barack Obama verranno ridimensionate o rovesciate. Anche se il controllo repubblicano del Congresso dal 2011 al 2016 aveva già bloccato molte iniziative del presidente democratico, promuovendo ad esempio la devoluzione di competenze federali verso gli stati (2/3 dei quali controllati da maggioranze repubblicane). Non è un caso che i successi interni del presidente Obama siano stati conseguiti in quel breve biennio (2009-2010) in cui ci fu una maggioranza democratica in entrambe le camere del Congresso. Sarà invece in politica estera che i cambiamenti avranno una portata più radicale. Seppure Trump e i repubblicani del Congresso abbiano non trascurabili differenze sul piano della politica interna, essi condividono la stessa agenda di politica estera. Un’agenda che ha un nome preciso: neo-isolazionismo. Un isolazionismo nuovo in quanto combinazione di nazionalismo economico e interventismo militare selettivo.
Ha ragione Roberto Napoletano quando scrive, nel suo editoriale di giovedì scorso, che “bisogna prendere atto che gli Stati Uniti nell’era di Trump saranno meno aperti agli scambi” precisando che “questo è un male, soprattutto per l’Europa e per noi”. È come se, con l’8 novembre del 2016, fosse giunto a conclusione un lungo ciclo politico, avviato dagli eredi di F.D. Roosevelt dopo la seconda guerra mondiale, basato sulla visione di un mondo aperto, oltre che governato da un complesso sistema di istituzioni multilaterali. La vittoria militare degli Stati Uniti in quel conflitto mondiale consentì alla sua leadership di promuovere un disegno di organizzazione del sistema internazionale che, una volta realizzato, introdusse una discontinuità profonda con il passato. Mai era stata elaborata una strategia così sofisticata.
La realizzazione di quel disegno (attraverso la nascita delle Nazioni Uniti e delle organizzazioni internazionali ad esse collegate, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, solo per ricordarne alcune) pose le basi di per un nuovo ordine mondiale. Un ordine mondiale così legittimato che, dopo la fine della guerra fredda, persino le nuove potenze in ascesa finirono per farlo proprio. L’ascesa della Cina, ad esempio, non è avvenuta contro quell’ordine, ma all’interno di esso.
Il punto è che questo ordine liberale internazionale ha reso possibile l’avvio e il consolidamento del processo di integrazione europea. Gli anti-americani che popolano le piazze europee (e i talk-show televisivi italiani) continuano a non rendersi conto che l’Europa pacificata è stata resa possibile dall’America vittoriosa. Senza la diffusione della democrazia, l’apertura dei commerci, la definizione di regole sovranazionali, gli stati nazionali europei non avrebbero potuto avviarsi sul percorso dell’integrazione. E, nello stesso tempo, senza la copertura militare degli Stati Uniti, quegli Stati non avrebbero potuto investire risorse per la loro crescita economica e per il loro sviluppo civile. L’integrazione europea è stata certamente voluta da statisti come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, ma è stata però resa possibile dalla sicurezza che gli americani le hanno fornito. Naturalmente, quello americano è stato un sostegno giustificato da una visione ma anche da interessi. La vicenda dell’isolazionismo americano degli anni Venti e Trenta aveva lasciato ferite profonde nel Paese. Dopo la prima guerra mondiale gli americani si erano talmente rinchiusi a casa loro che il Senato votò addirittura contro (nel 1920) il Trattato per la costituzione di una Lega o società delle nazioni, Trattato negoziato faticosamente dal presidente americano Woodrow Wilson con i leader degli Stati nazionali europei. Ma quel ritorno a casa si dimostrò un’illusione terribile, per gli Stati Uniti e per il mondo. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, e l’attacco di Pearl Harbour, riportò drammaticamente il Paese fuori casa, così chiudendo la parentesi isolazionista.
Ora, la messa in discussione di questa lunga fase di apertura avrà conseguenze imprevedibili sul mondo (e sull’Europa in particolare). Per la prima volta, da sessant’anni, l’Europa dovrà camminare sulle proprie gambe. I sostegni di cui ha beneficiato (spesso in modo opportunistico) non sono più sicuri. Non è più sicura l’alleanza atlantica della Nato, che Trump vuole ridimensionare, almeno fino a quando gli europei non daranno il loro dovuto contributo finanziario (2 per cento del Pil nazionale). Non è più sicuro il mercato transatlantico, entro il quale si è sviluppato quello europeo, che Trump vuole ridimensionare attraverso la ripresa di politiche protezionistiche (finalizzate a difendere le industrie e il lavoro americani). In questa situazione, non può non far paura, come scrive sempre Roberto Napoletano, «il vuoto di leadership politica europea che ha un’agenda sempre fitta di troppe cose, spesso inutili, di cui occuparsi». Basti leggere i messaggi inviati dai leader europei al neo-presidente Trump: puri esercizi scolastici di retorica democraticista. Figuriamoci se Trump e i repubblicani del Congresso si faranno impressionare dai nostri inviti a rispettare i diritti umani e lo stato di diritto. Come se l’America di Trump fosse la Turchia di Erdogan.
Invece di ricorrere alla retorica, la svolta degli Stati Uniti dovrebbe essere affrontata con la politica. Tale svolta non é un incidente di percorso, come non fu un incidente di percorso la Brexit voluta dagli elettori britannici nel giugno scorso. Il nazionalismo economico e il sovranismo politico sono in ascesa ovunque in occidente. L’isolazionismo americano, per quanto preoccupante, ha una base nelle grandi dimensioni di quel paese. Ma l’isolazionismo dei singoli Paesi europei sarebbe del tutto insensato. Soprattutto, lo sviluppo dei nazionalismi economici ci porterebbe di nuovo alle tensioni tra i nazionalismi politici. Invece di occuparsi di tante cose in sé importanti, ma strategicamente inutili, sarebbe ora che l’Unione europea trovasse il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Dato il nuovo contesto transatlantico, l’Unione o almeno i Paesi che condividono la stessa moneta dovrebbero assumersi le loro responsabilità, accelerando il processo di formazione di un’organizzazione politica in grado di provvedere alla sicurezza militare ed economica dei suoi cittadini. Se l’America ha riscoperto il primato della politica per fare un passo indietro, l’Europa dovrebbe riscoprire quel primato per fare un balzo in avanti.