il manifesto 13.11.16
La rivalsa della supremazia maschilista
di Guido Viale
La
vittoria di Trump. Spiegare la vittoria di Trump o l’avanzata delle
destre xenofobe solo come una scelta di classi e ceti «dimenticati» urta
innanzitutto con il dato, appurato, che a votare per entrambi non sono
solo né principalmente i poveri e i declassati; e che anzi, come nella
più classica delle analisi sociali, le adesioni ai loro programmi o,
meglio, ai loro slogan, cresce col crescere del reddito e della
posizione sociale - non con quello dell’istruzione - anche se sono
certamente molto ampie tra le persone, qui soprattutto maschi bianchi,
che sono vittime della globalizzazione e che rischiano di restare
vittime di questa loro forma di ribellione
Da alcuni
decenni sono tornate a vedersi, prima nelle grandi città arabe e
musulmane, poi anche in quelle europee e occidentali, donne velate come
prima si potevano incontrare solo negli angoli più emarginati delle zone
rurali.
Anche l’estensione della copertura a cui viene sottoposto
il loro corpo, dal chador al niqab, al burka, per finire ai guanti, per
impedire ogni possibile contatto con mani estranee, è andata crescendo –
ben al di là di quanto possa essere ricondotto anche alla più rigida
delle tradizioni – come segno della progressione di un riconquistato
dominio dell’uomo sul popolo delle donne; un dominio che i contatti con
la cultura occidentale, soprattutto dopo l’esplosione del femminismo
negli anni ’70, stavano erodendo poco per volta.
Non era difficile
riconoscere in questa inversione di tendenza il segno esteriore della
rivalsa di una popolazione maschile, di fronte alla constatazione che né
la decolonizzazione dei loro paesi, né la strada di un socialismo sui
generis, in gran parte di impronta sovietica, né quella del nazionalismo
arabo, e nemmeno quella dell’emigrazione in Europa avevano raggiunto i
risultati promessi in termini di emancipazione, di diritti, di
benessere.
La strada sbarrata dello sviluppo umano in tanti paesi
ex coloniali e in tante comunità immigrate e discriminate stava
spingendo, una dietro l’altra, le popolazioni che continuavano a subire
il predominio della «civiltà» bianca occidentale a compensare questa
loro subalternità imponendo alla «loro» altra metà del cielo, e in forme
ben più visibili che non in passato, una subalternità altrettanto se
non anche più spietata.
L’origine di questo cambio di rotta è di
per sé sufficiente a spiegare, anche se non in modo esaustivo, la
condivisione o l’accettazione di questa imposizione da parte di molte
donne che indossano con orgoglio questi segni della loro subordinazione
come manifestazione del rifiuto di tutto ciò che la «civiltà»
occidentale ha cercato di imporre anche a loro.
Il fondamentalismo
radicale ha poi fatto di questa riconquista dell’uomo sulla donna il
centro della propria ideologia, della propria prassi (fino a
giustificare lo stupro e la schiavitù delle donne estranee alle proprie
comunità) e anche del richiamo nei confronti di giovani maschi alla
ricerca di avventure. Per questo è già stato rilevato più volte che
l’arma principale che può disgregare questa vera e propria minaccia per
l’umanità, sia quando assume le forme e la consistenza di uno Stato, di
un esercito, di una comunità chiusa, sia quando si manifesta nel
moltiplicarsi delle iniziative stragiste in tutto il resto del mondo,
non può che essere la decisione delle donne di queste comunità di
riprendere in mano il loro destino; ovviamente nelle forme che loro
stesse decidono di adottare, anche in considerazione dei pesanti vincoli
a cui sono sottoposte, e che non coincidono necessariamente con quelle
che molti di noi desidererebbero.
Certamente l’esempio che viene
dalle aree liberate della Siria curda come il Rojava, e che non si
limita solo alla partecipazione delle donne alla guerra di liberazione,
ma investe tutti gli ambiti della vita associata, è quello che a noi
risulta più chiaro ed efficace. Ma non è detto che sia il solo e che
altre strade non possano essere percorse, senza pretendere che il primo
passo in questa direzione sia quello di «togliersi il velo».
Ma
che ne è dalle nostre parti? Quelle dell’uomo bianco occidentale? Tanto è
facile – o sembra – fare l’antropologia delle altrui culture quanto è
difficile riconoscere nella nostra i segni vistosi di processi analoghi,
che pure sono sotto gli occhi di tutti. Così, prima ancora di
individuarvi una manifestazione del rancore della popolazione bianca
declassata dalla globalizzazione contro le rispettive élite, ci si
dovrebbe chiedere se l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli
Stati Uniti, come l’«irresistibile» avanzata di tanti movimenti xenofobi
e di destra nei paesi dell’Unione Europea, non siano innanzitutto
manifestazioni di una rimonta di maschilismo, non nelle forme bigotte e
cupe imposte dal fondamentalismo islamico, ma in quelle volgari,
sboccate e persino pornografiche che da tempo covano sotto la coltre del
cosiddetto «politicamente corretto».
Spiegare la vittoria di
Trump o l’avanzata delle destre xenofobe solo come una scelta di classi e
ceti «dimenticati» urta innanzitutto con il dato, appurato, che a
votare per entrambi non sono solo né principalmente i poveri e i
declassati; e che anzi, come nella più classica delle analisi sociali,
le adesioni ai loro programmi o, meglio, ai loro slogan, cresce col
crescere del reddito e della posizione sociale – non con quello
dell’istruzione – anche se sono certamente molto ampie tra le persone,
qui soprattutto maschi bianchi, che sono vittime della globalizzazione e
che rischiano di restare vittime di questa loro forma di ribellione.
Che
l’adesione alle prospettive xenofobe e razziste di questi schieramenti
abbia molto a che fare con un desiderio di rivalsa nei confronti delle
«proprie» donne, e delle donne in generale, è evidente vedendo che la
candidatura alla Casa Bianca di una donna ha creato molta diffidenza in
tutti le componenti dell’elettorato statunitense, anche se Hillary
Clinton si è giocata la carta del genere solo nella parte finale della
sua campagna elettorale. Ma l’indizio maggiore di questa volontà di
rivalsa tra l’elettorato maschile di tutte le classi – e anche tra
quello femminile che vede nella liberazione della donna dai vincoli
patriarcali una minaccia per la stabilità della propria collocazione
familiare – è il fatto che a sostegno di Trump siano scesi in campo,
come a suo tempo con Berlusconi, i settori più estremisti del
fondamentalismo cristiano: soprattutto protestante negli Usa, o
cattolico – quello di Comunione e Liberazione, ma non solo – in Italia.
Ma
lo stesso succede in molti altri paesi dell’Europa, soprattutto
dell’Est. Non c’è stato un semplice «passar sopra» ai vizi conclamati
dei loro leader, bensì il riconoscimento, forse inconsapevole, che
l’ostentato maschilismo del leader, e non solo suo, è la conferma della
riconquista di un potere maschilista e patriarcale sulle donne, che
funziona innanzitutto come risarcimento per la perdita di diritti, di
benessere e di potere nella vita «globalizzata». Il senso di questa
rimonta del maschilismo è confermata dall’aumento verticale dei
femminicidi: il Kukluxklan del maschio che lincia la «propria» donna
disobbediente.
Per questo razzismo e maschilismo risultano
intrecciati anche nel nostro occident e l’affermazione di uomini come
Trump, o l’avanzata dei suoi omologhi europei recano il segno del
ripiegamento verso un fondamentalismo occidentale – dove molta parte del
cristianesimo, quella non a caso avversa al magistero ecumenico di papa
Francesco, gioca un ruolo identitario fondamentale – nei cui confronti
la partita decisiva non si potrà giocare senza una vigorosa ripresa del
movimento femminista.