il manifesto Alias 20.11.16
Se il senso cambia pelle
Psicoanalisi. Un saggio di Romano Madera dedicato al fondatore della psicologia analitica: "Carl Gustav Jung", da Feltrinelli
di Paulo Barone
Come
seguire i continui mutamenti che rimodellano senza sosta il volto della
società contemporanea e dare conto dei lineamenti sempre più sfuggenti e
dei modi di vivere spesso indecifrabili e sconclusionati che la
caratterizzano? Come avere il polso della corrente di infelicità e di
misfatti, di sogni e nostalgie che scorre sotto la superficie dei suoi
comportamenti per cogliere, al di là di essi, il tratto saliente che li
unifica e la vocazione di fondo che potrebbe ispirarli? Come farsi
un’idea, insomma, del tempo presente, del tempo in cui viviamo?
Sino
a un passato non lontano si poteva ancora esser certi che domande del
genere avrebbero trovato, prima o poi, delle risposte adeguate, che lo
sforzo impiegato per cercarle sarebbe stato infine coronato da successo.
Oggi, al contrario, sperimentiamo non solo che le risposte mancano del
tutto, ma che il domandare stesso è diventato superfluo: il nostro tempo
– forse per la prima volta nel corso della storia – potrebbe risultare
privo di qualunque idea o immagine di fondo che lo orienti, e dunque
ritrovarsi stordito, inconsistente, letteralmente insensato. Proprio
intorno alla questione della sparizione di senso dalla scena
contemporanea, dei guasti che ne derivano, della necessità di
ripristinarne la ricerca , ma, insieme, dei limiti invalicabili con cui
quest’ultima si scontra, ruota il recente Carl Gustav Jung di Romano
Màdera (Feltrinelli, pp. 160, euro 14,00).
La sua scelta di
rifarsi – con Jung – alla psicoanalisi per seguire le vicissitudini del
senso è più che pertinente. La nozione di inconscio con cui la
psicoanalisi si qualifica emerge infatti nel mezzo di una precisa
frattura storica, al termine cioè di quel processo di erosione con cui
la Modernità si sbarazza di tutti i vincoli mitici, magici, religiosi,
soprannaturali che regolavano invece i modi di vivere delle società
tradizionali.
L’inconscio è innanzitutto il risultato e il sintomo
storico di questo sgretolamento, il «prezzo del progresso»,
l’equivalente moderno dei vincoli antichi andati in frantumi, la nuova
oscurità che vela la luce della ragione e scinde il profilo dell’Io.
Ecco perché, ben prima di costituire la parola d’ordine di un sapere
specialistico divenuto via via più o meno competente, l’inconscio resta
il cristallo in cui si riflette una svolta epocale – la tradizione che
si spezza – nonché una delle più efficaci lenti d’ingrandimento
attraverso cui osservarla. È qui che, ricorda Màdera, il senso cambia
pelle. Non si può più accedervi uniformando la propria condotta a quella
di un modello esemplare, restando nell’anonimato e «imitando» la via
seguita da un altro, come nel passato. Ciascuno adesso è chiamato per
nome a trovare da sé la propria via, il proprio senso.
Màdera
mostra bene come sia Freud che Jung accolgano questa ingiunzione, benché
sia Jung a trarne le conseguenze più radicali: con la «morte di Dio»
l’inconscio per Jung non è solo il deposito che ne raccoglie le scorie,
ma soprattutto il luogo in cui torna libera l’energia incandescente e
misteriosa che l’immagine storica del dio unico prima incorporava.
Sprigionata, tale energia è ora variazione, diversificazione continua:
preme direttamente nelle vite dei singoli, reclama di essere realizzata e
riconosciuta individualmente, intima a ognuna di «seguire il battito
del proprio cuore». Dare ascolto a questo appello sarebbe la sola cura
per la nostra intera «civiltà in transizione».
Le condizioni
attuali sembrano però averla resa quasi del tutto impraticabile. A
Màdera, come ad altri, pare che la «clinica dell’individuazione» si
scontri ormai con l’amorfo, caotico impasto sociale prodotto dal
capitalismo globale. Invece che individui riunificati – cioè alla
lettera, sottolinea Màdera, in-dividui, in-divisi – finalmente in cerca
del proprio senso, ci troveremmo di fronte individualisti atomizzati,
ripiegati narcisisticamente su di sé. Ciò che rimane tuttavia inspiegato
in queste letture è come il medesimo processo storico sia, al contempo,
quello che promuove le mille voci soggettive e quello che produce il
loro doppio deforme e aberrante.
Del nostro tempo ci viene così
restituita una dolente immagine scissa, spaccata in due: e poiché questo
è il tempo in cui viviamo, anche un’immagine scissa di noi stessi, dove
non possiamo dirci individui senza sospettare di essere, insieme, un
po’ atomi – termine che paradossalmente significa, anch’esso, in-divisi.
Eppure da tempo la modernità del Capitale – non potendo prescindere dal
suo presupposto di avere a disposizione sempre e solo risorse
inesauribili – è entrata in un vicolo cieco, popolato via via da figure
di cui non sa venire a capo, perché appunto figure esaurite, dal senso
esausto, dai tempi morti. C’è da chiedersi se non occorra rivolgere con
più fiducia la dovuta attenzione a queste figure impossibili e impensate
per riannodare i lembi della scissione, abbandonando entrambi i
termini, individuo e atomo, che la mantengono ancora in vita.